Se ne è andata

(grazie all'editrice per il consenso alla pubblicazione su questo blog)
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C’è dell’altro in questa storia.
Sì d’accordo, lei mi ha lasciato, giurando tra i denti di non voler tornare più.
E qui potrei finire.
Non ho capito se voleva che glielo sentissi dire. Spero di sì.
Ha preso poche cose: un libro, qualche vestito, il pettine e lo spazzolino, rovesciando le nostre foto lungo il percorso. Quella del matrimonio è stata la prima, come ovvio. La cornice d’argento è caduta di spigolo e ha inciso il parquet, il vetro in frantumi.
Dove è andata non lo so.
Non tornerà più, ha detto. Forse l’ha fatto solo per farmi star male. Perché era arrabbiata.
Andata è andata, comunque. E’ uscita di corsa, con quelle due cose in un sacchetto. Correva anche in strada, l’ho guardata dalla finestra. Ha svoltato e Aosta l’ha inghiottita. Suona ridicolo, lo so, ma è quello che ho provato. Correva per farmi del male, posso giurarlo. Sapeva che la stavo guardando, dopo la svolta ha rallentato. Tornerà, quando le sarà passata.
Però c’è dell’altro.
Non capisco ancora come sia successo. E’ bastata una frase uscita male, quel tono sbagliato per farla saltar su, raccogliere quelle sue cose nel sacchetto frusciando parole a mezza voce che neanche capivo. Parlava piano e si muoveva in fretta. E io che la guardavo e non dicevo bah. Le nostre foto che andavano giù e il pavimento in legno che scricchiolando parlava per me. Chiedeva che fai adesso? Che succede? Vuoi fermarti e parlare guardandomi in faccia?
Ma lei non lo ascoltava, il pavimento, sebbene lo fissasse, invece di guardare me. Poi la promessa: «non torno più». E la porta che sbatteva dietro di lei.
Per una frase uscita male, con quel tono sbagliato.
Che avrò detto poi?
Di sicuro è un copione scritto da tempo. Già provato in mia assenza. Troppo sicuri i suoi passi in camera da letto, il sacchetto estratto da un tasca, la mano che va a segno sulle foto. Oggi si è tenuta la prova generale, voglio sperarlo. Il suo effetto l’ha avuto, questo è certo. Mancava il pubblico, però.
Tornerà, posso contarci, portandosi dietro la madre e la sorella o le amiche del caffè letterario, così affamate di commediacce sentimentali. Tornerà appena la madre avrà acceso un cero a Maria Immacolata, appena il parroco avrà detto che certe cose si sistemano con pazienza e sacrificio.
Ha sempre avuto questa vocazione da soap-opera, glielo devo riconoscere. Non ha rinunciato a una drammatica uscita di scena, dimenticando che questa è anche casa sua, in fondo. Tornerà, almeno per buttarmi fuori. Sarà un’altra scena studiata, tutta compresa in quel suo senso tragico del destino. Mi ricorderà, come sempre, che lei è una donna solida e martirizzata da un’ipoteca sulla casa, da un marito studente a tempo pieno tendente all’alcolismo, da un gatto depresso chiazzato dall’alopecia.
Una vita da schifo, messa così.
Così si finisce come questo gatto, rannicchiato immobile sul divano a fantasticare su come sarebbe stata la sua vita senza l’alopecia. Si finisce buttando due cose in un sacchetto e uscendo dalla porta con una promessa che non si può mantenere. Solo perché ho detto che le cose per me andavano bene così. Questo ho detto, insomma.
E’ stata lei a cominciare, però. C’è del premeditato in quel che è successo. Mi ha chiesto notizie del mio prossimo esame all’università. Se ne è uscita a bruciapelo con questa domanda, mentre tagliavo le cipolle a fili per la cena. Alla tv parlavano d’incidenti in montagna, turisti imprudenti, caviglie fratturate e spalle lussate. L’elisoccorso è davvero una meraviglia. Hanno mostrato una barella che si sollevava dal prato: sospesa nel vuoto se ne è andata agganciata all’elicottero. “Per fortuna è estate” ho pensato “e quel tizio non morirà di freddo lassù”. Poi l’ho guardata. «Storia contemporanea» le ho detto. Già le leggevo quell’ansia tremebonda sulla faccia. «Sto ricostruendo la battaglia di Stalingrado» ho continuato. Le scendono le sopracciglia sugli occhi, quando si sta arrabbiando, e le labbra si fanno sottili. «E’ stato un assedio terribile, in cui Hitler ha impegnato divisioni su divisioni, perché voleva sfondare. Ad ogni costo: ordinò a Von Paulus di schiacciare la città che portava il nome del suo nemico più odiato.» Ma già non mi guardava più, mi ascoltava soltanto, rivolta alla finestra. Allora le ho detto che il lavoro al supermercato mi ha occupato più del previsto negli ultimi tempi, «non arriverò in tempo alla caduta del Muro di Berlino, sono costretto a saltare la sessione, se ne riparlerà a settembre.»
Stavano intervistando il presidente di non so che proloco e già sentivo sfrigolare la miccia. Non l’ho accesa io, questo è sicuro.
Ho continuato a svestire cipolle e mi sarei detto contento di sapere che la festa patronale era stata un successo, che l’incasso aveva battuto ogni record, che il vino era scorso a fiumi, che il grasso di salsiccia era colato allegramente sulle griglie per tutto il pomeriggio. Lo sarei stato, se non avessi avuto una bocca di cannone puntata su di me.
Ha cominciato con la solita storia della mia inaffidabilità, perché non voglio decidermi a laurearmi, trovarmi un lavoro decente. Era così agitata che il gatto ha deciso di cambiare aria. Si muove una volta al giorno: ha deciso che quello era il momento giusto. Si è stiracchiato, leccato il pelo che gli resta sulla gobba, fatto uno sbadiglio e una smorfia di ribrezzo, uscito in direzione di una sedia infilata sotto al tavolo del soggiorno.
La cipolla nella padella era decisamente troppa. Con la punta del coltello ho raccolto i fili in eccesso cercando di non rigare lo strato antiaderente.
«La situazione è sotto controllo» le ho detto «non capisco questa tua agitazione, rimando l’esame perché ho dovuto lavorare, i soldi ci fan comodo, non ci sputo sopra come fai tu, si tratta solo di una sessione, stai calma.»
«No, tu non ci sputi sopra ai soldi» questo l’acme drammatico «te li bevi al bar, questo è il punto, due giorni al supermarket e cinque a berti la paga dietro un bancone marcito mentre io, io, io, io» quattro volte, le ho contate «mi sbatto per il mutuo, i tuoi vestiti, la macchina, i tuoi pasti e quelli del tuo gatto pelato. Dimmelo: chi si chiude in ufficio a rodersi il fegato tutta la settimana e il weekend a servire merda al ristorante? Chi fa due lavori per mantenere un marito che non vuole concludere un cazzo?»
«Non fare la drammatica, e dai» che cosa potevo dirle mentre infilavo fili di cipolla in un cellophane per il freezer con la punta del coltello? «non ce la passiamo poi così male in fondo…»
non ce la passiamo così male…
in fondo…
così… mhm male…
… male…

UNA SPECIE DI BOMBA AL NEUTRINO,
o che ne so,
di quelle che esplodendo lasciano tutto intatto, senza fare rumore distruggono rapporti, amicizie, amori, storie, tutto quanto sia palpito, esistenza,
in una parola: vita.
Con quel suo gorgheggiare ambulante se ne è uscita di casa, rapidissima.
Con quella sua faccia che non sono più riuscito a vedere.
Ho guardato il gatto, invece: aveva perso un’altra zolla di pelo.

Le tre di mattina e non ho ancora chiuso occhio. Con gli occhi a palla il gatto mi guarda dal fondo del letto. Sicuramente mi vuol dire un sacco di cose. Stavolta l’hai fatta grossa, è la prima. L’hai lasciata andare senza far niente, la seconda. Non ho una vita sociale, prenota un trapianto di pelo, la terza. Ho una sola risposta e gliela dico: «non è colpa mia, non posso farci niente.»
Mi giro a pancia in giù per continuare a pensare in santa pace.
C’è dell’altro in quel che è successo.
Mi alzo dal letto per placare la sete. Il gatto resta lì.
In frigo non c’è ombra di birra. Mi attacco alla canna del rubinetto, fino al primo bar può bastare. Il lavandino è inguardabile. Piatti chiazzati di unto, forchette e coltelli gocciolanti, lingue di sugo sul pavimento.
Ha la scusa per tornare a far brillare la cucina. I patti sono chiari: chi cucina non lava. Mi limito a raccogliere dal lavandino il sacchetto con i fili di cipolla, a sigillarlo con la fascetta in plastica e chiuderlo nel freezer. Ero convinto di averlo già fatto, ma evidentemente ero troppo impegnato a guardarla rovesciare le nostre foto.
Per il resto è meglio non guardare. Meglio cercare il sistema per aprire la strada alla voglia di birra. Afferro il vaso in cima alla credenza e lo rovescio sul tavolo. Soldatini di piombo, uno zippo inutilizzabile, un paio di avanzi di candele, un dadino avvolto nella stagnola. Con lei in casa, guai ad accendermi un calumet.
Prendo una sigaretta dal pacchetto e la svuoto sopra un foglio, pagliuzza dopo pagliuzza, schiacciandola tra pollice e indice. Troppo lusso una cartina in questa situazione. Arrotolo una striscia di cartoncino, estraggo il filtro e infilo la spiraletta. Con l’accendino scaldo l’angolo del dado e lo sbriciolo sopra il tabacco. Con calma, un’operazione così rilassante, con molta calma mischio la mistura e la rimetto a ciuffetti dentro il tubo di carta. Piego il foglio e faccio scivolare gli ultimi granuli nel cilindretto, schiacciando leggermente con la punta di una matita. Gran bella sigaretta liscia liscia, cazzo. La infilo in bocca e accendo.

Spento il sigarettone mi vesto e m’infilo il giubbotto. In camera accarezzo il gatto. Alza la testa pelosa, muove la pancia glabra, si sposta, sistema coda, zampette e riprende a dormire con un soffio di naso.
Trattengo una grassa risata e mi chiudo la porta alle spalle.

In strada solo fantasmi. Un piede dietro l’altro, calpesto i cubetti di porfido seguendo un disegno che si forma in testa. Sento il rimbalzo dei passi sui muri, l’abbaglio dei lampioni che mi picchia in testa. Non resisto a guardarli, tengo gli occhi sui cubetti, a calcolare le geometrie dei piedi. E’ una notte silenziosa e solitaria, sotto una frescura che ha preso a scendere dal cielo, dentro una città che non riconosco. Una notte sopportabile solo per la certezza che domani sarà di nuovo a casa. Tornerà a scivolare le dita sulle mie braccia, a soffiarmi tra i capelli, parlando con tenerezza di eternità. Sarà solo una giornata da ridere, questa. Descriverò lo sguardo sconsolato del mio gatto tagliando una bistecca di maiale. Ingoieremo birra grufolando per le ridicole parole che ci siamo detti. E faremo l’amore per celebrare un rapporto più robusto. Avremo ancora un matrimonio e un nuovo vetro per la foto di nozze. Non mi stupirei di trovarla dietro l’angolo della farmacia, adesso, la testa piegata sotto la croce, la bocca rivolta allo zampillo d’acqua e la mano a tenere i capelli sulla nuca.
Ma non c’è. Così giro intorno alla fontana, gli occhi che mi corrono sulla pietra erosa, le forme esoteriche che non so leggere, in cima la croce sbrecciata. Intorno le facciate rifatte, stucchi posticci, finestre scure. Potrebbe esserci lei, dietro una finestra, per saggiare su di me l’effetto che fa. Per prendermi in giro, domani, della faccia che ho, per quest’espressione di cane abbandonato che ho sul grugno.
Almeno cinque o sei bar sulla mia strada, tutti chiusi, nessuno con cui parlare. Mi piego, tappo il tubo con due dita e rinfresco la bocca sopra lo zampillo. Risveglio l’esofago, scuoto lo stomaco. Ancora i miei occhi sulle finestre, senza che lo voglia, mentre asciugo le labbra con la manica. Sono tutti lì, col fiato sospeso dietro i vetri, che scrutano i miei passi di uomo solo.
E allora me ne vado, per lasciarli raccontare di me le storie che io solo dovrei sapere. Cammino al centro della strada per farmi vedere meglio, perché vedano chi è il protagonista del loro disprezzo. Con questi piedi vado diritto, devono vederlo, anche se prima andavano da soli, questi piedi, e adesso sono appesantiti dalla mancanza di birra e da questo vuoto che mi solletica lo stomaco e mi fa ridere di questa situazione e della mia risata che mi ritorna dai muri. Domani verrà a casa, posso scommettere. Mi chiederà scusa per essersi comportata così male. Dirà di aver passato la notte da sua madre, a piangere e raccontare di noi e del nostro gatto. Allora le prometterò quel che vorrà: una laurea, se è quel che vuole, un lavoro decoroso, delle giornate miti. Mi passerà il palmo della mano sulla guancia, scivolando lungo il collo, oltre il petto e la pancia. Mi slaccerà i pantaloni. Le sfilerò i suoi e mi abbandonerò alle sue mani che lavorano su di me. Sul letto si piegherà in quel modo che mi piace, perché la possa guardare senza che lei mi veda. E mi dirà che mi ama tra respiri lunghi. Poi mi verrà sopra, in quell’altro modo. Prenderemo quella lunga rincorsa ritmata e ci diremo di amarci venendo, ciascuno negli occhi dell’altro.
Questa facciata di cattedrale in stile perbenista è il posto più sbagliato per questa eccitazione che mi sale alla pancia. Certi edifici ti osservano se li incontri la notte. Passi solitario sotto i cornicioni e le due ali spioventi del tetto sono sopracciglia imbronciate che ti giudicano. Anche le statue dei santi, come se non bastasse, mi addossano il peso delle loro occhiate. Scivolo di lato, gli occhi a disegnare gli incastri dei piedi sulla pietra, pregando perché una lastra di tetto non scenda dal campanile a mettere fine alla mia notte. Verrei raccolto in mattinata agonizzante, una lamina infilata nel collo, un’erezione persistente in un lago di sangue, quattro ultime parole raccolte da un passante: «fuggivo dal giudizio divino.»
Buono il dado di stasera, a giudicare dall’eccitazione che non passa mentre corro lontano dal perimetro curiale verso la piazza dell’albero della Libertà e dell’albero di Natale.
Il guaio è che non si fa quasi più niente tra noi. Dice che non si sente bene, di aspettare che passi, che forse domani… Oppure per l’odore di birra, che lei non sopporta, o perché sono fuso, per le canne, e vorrei farlo come un torello alla sua prima esperienza, ma a lei non va, perché dice che la strapazzo, se sono fuso. Così tocca a lei rimanere all’asciutto, la volta successiva, perché magari sono stanco e ho sonno e in casa non c’è niente per tirarmi su. E allora non ce lo chiediamo più. Essere respinti è insopportabile, in questo siamo uguali. Ma lei non ce l’ha il suo sfogo, quello che mi trovo, certe volte, se proprio non ce la faccio. Qualcuno a cui offrire del fumo e spassarsela un po’ si trova sempre. Bastano due chiacchiere, a volte, e si va da questa, o in macchina, certe volte, al buio. Si fa e tanti saluti. Così che a casa non ho bisogno di niente. Arrivo, mi sdraio, ascolto il suo respiro da addormentata e scivolo nel sonno.
Lei non ce l’ha il suo sfogo. Non lo potrei sopportare.
Vorrei essere a casa, adesso, al riparo da questo freddo improvviso, scivolarle accanto e abbandonarmi a questo sonno primordiale di bestia stremata. E dimenticare. Sono stanco, ora, e le palpebre scendono a scaldarmi le cornee.
Entro nella piazza, spianata e lunga, questa luce artificiale che tramortisce, la necessità di sedermi. Ma vado avanti, i piedi sopra i rombi arancioni, a zigzag nello spazio vuoto, incontro all’altissimo generale dell’Armata del Popolo. Se ne sta piantato lì, da mille anni cammina per restare fermo. Il gomito puntato su di me e il fucile nell’altra mano.

Non più un passo indietro! Dev’essere la parola d'ordine.
Combattiamo fino all'ultima goccia di sangue.
Aggrappiamoci ad ogni zolla di terra sovietica,
difendiamola fino all'ultima possibilità.

Come lui allungo un piede, sollevo il gomito piegato davanti alla faccia, con l’altra mano stringo un fucile che non ho. Per uomini come lui il palazzo alle sue spalle è ancora in piedi e le nostre vite hanno un senso. Ma è come se il fucile mi tirasse con sé, perdo l’equilibrio, arretro il piede, una mezza giravolta, la testa che ciondola, le suole dentro il rombo, resto in piedi, di spalle al soldato.
Luce accecante. Generale Zukov, mi lasci andare, non ho tempo per combattere!
Ancora bar chiusi nella via che ho imboccato. Cammino in diagonale, i piedi dentro i contorni di ogni pietra, rimbalzo contro i muri e correggo la direzione. La prima volta che abbiamo camminato insieme per questa strada i muri erano scrostati e il sole ci massaggiava le nuche. Parlava della laurea che stava prendendo, delle sue mire su organizzazioni internazionali che non avevo mai sentito nominare. A me piacevano le sue ginocchia, il modo che aveva di sollevarle portandosi dietro il resto della gamba. Mi piaceva che fosse alta come me, poterla baciare guardandola negli occhi, incrociare i nasi senza dovermi piegare. Aveva in tasca ottime probabilità di iniziare uno stage all’estero, «di quelli che contano» diceva. Appena ottenuta la laurea sarebbe partita. E poi c’era la strada dei concorsi per enti governativi o, al limite, quella dei contratti a termine nelle ONG. A me piaceva ascoltare, camminare sotto il sole che mi scaldava le spalle, guardare la tinta che cadeva a pezzi dai muri.
Non capisco il freddo di questa notte, invece, e non lo sopporto. Vado da un muro all’altro, ora che odio questa città, cammino sotto la pancia degli elefanti di pietra che mi guardano passare. A questi due vorrei dire che li preferivo allora, colorati dall’età, senza colate di cemento sulla groppa, prima di quel loro ridicolo lifting. Vado e me li lascio alle spalle, al loro brucare silenzioso. Da un muro all’altro, tutti lisci, tutti colorati, m’infilo di lato, incontro all’albero rinsecchito, verso il suo fusto imbragato.

Il nemico era più forte di almeno quindici-venti volte.
I tedeschi attaccavano al ritmo di dodici assalti al giorno.
In settembre raggiunsero il centro della città.
Ai russi non restavano che pochi quartieri tra le macerie.
Eppure continuavano a resistere.

Radici aggrappate da secoli alla terra. Formiche che risalgono il tronco, che ne succhiano la linfa. Termiti che ne erodono lo scheletro. Ma l’albero non se ne cura. Continua a dormire sopra i sostegni, la pancia scavata che si appoggia alle travi. Domattina affronterà un’altra giornata da strappare alla morte.
Il giorno della laurea non ci fu il tempo di accertare il fatto. Ci concentrammo sulla giornata nervosa ed esaltante. Dentro la gonna e il giacchino chiuso davanti, mi disse che non era donna da tailleur. Sostenne gli sguardi della commissione con la sua voce dal timbro adolescenziale. E mi portò fuori dall’edificio dell’università abbracciandomi alla vita, i suoi amici a cianciare intorno a noi in direzione del primo bar. Sette giorni di ritardo potevano gioiosamente diventare otto.
Bassa e stretta, umiliata dal suo campanile, questa chiesa è in gara con l’albero in fatto di vecchiaia. E’ così triste l’ombra che lascia sfilare da sé. Spio il campanile tra i rami dell’albero, poi la facciata che indica il cielo, quelle finestrelle che piangono per me.
Ci sposammo perché tutti ci dissero che andava fatto e i suoi genitori ci trovarono una casa in affitto. Una vera famiglia organizza il benvenuto. Nelle foto del matrimonio non c’è traccia della gravidanza. Ed è come se non ci fosse mai stata. Non abbiamo più parlato dell’incidente sull’autostrada. Mi chiamarono dall’ospedale mentre stavo allineando saponi idratanti al supermercato. Dissero che lei era fuori pericolo, che per il feto non c’era stato nulla da fare. Mi portarono davanti alla sua porta, mi fecero indossare camice, copriscarpe e mascherina. Spinsi la porta sforzandomi di pensare che le cose tra noi non sarebbero cambiate. Non c’era stato nemmeno il tempo di vederle crescere la pancia, appoggiare l’orecchio per ascoltarne i movimenti. Non le chiesi nemmeno che ci facesse quel giorno sull’autostrada.

Il generale Zukov comandò il contrattacco del novembre 1942.
La manovra mirava a sfondare il fronte a nord e a sud-ovest e ad accerchiare l'armata entrata in città.

Aggiro il campanile e imbocco la strada che corre tra due mura di pietra per lasciarmi alle spalle il sagrato che ha visto il nostro matrimonio. Facemmo anche allora questa strada in corteo verso le macchine. Volevamo evitare la via da parata e quel banale arco in fondo alla strada. Ricordo come il mio sguardo fu attirato dal vecchio cimitero oltre l’inferriata. Allora non ci fu il tempo per fermarsi, un fotografo impaziente e gli invitati affamati ci tallonavano. Incollo le mani a questi ferri, ora, le nocche già bianche per lo sforzo. Gli eroi di Stalingrado sono tutti qui. Riposano da decenni dopo aver resistito, contrattaccato, inseguito il nemico fino a Berlino. Pietre e lapidi, croci storte e parole sacre. Successioni di lastre, una griglia di sentieri tra le tombe, l’antica gloria silente.

All’apice del disastro
il Führer promosse Von Paulus a Feldmaresciallo,
il grado più alto dell’esercito tedesco.
L’ordine tassativo era continuare a combattere.
Nessun maresciallo del Reich si era mai arreso.
La fame, il gelo,
i mesi di accerchiamento sotto le katjuscia
costrinsero Paulus a cedere.
Così i russi catturarono un Feldmaresciallo
invece di un generale.

Dopo l’incidente non volle più partire per un lavoro che le sembrava inutile andare a cercare lontano. Trovò un impiego pubblico, quasi subito, e insieme cercammo una casa da comprare, forse solo per occupare il tempo in qualcosa che sembrasse un nuovo inizio.
Con più forza nei bicipiti passerei con facilità dall’altra parte. Stringendo le sbarre mi spingo sulle gambe, stendo le braccia, poso un piede sulla sommità del muro, impiego il massimo sforzo per non farmi infilare dall’inferriata. Anche l’altro piede sul muro, spinta di reni e sono seduto con le gambe già dentro a penzoloni. Scivolo sul sedere, mi aggrappo con le braccia, spalle al cimitero, le suole che slittano sul muro, un salto e sono a terra. In piedi e senza ferite.
Vado sulle tombe, a zigzag tra le ombre, in quest’odore di giardino e di polvere da sparo. E ti trovo, guidato da te: Zukov, da trent’anni interrato, l’eroe di Mosca, di Stalingrado, di Varsavia, di Berlino. Lascia che mi stenda a riposare con te, lascia che posi la testa sulla tua pietra, lasciami guardare le stelle di questa notte. Lascia che le palpebre cadano su di me.

Lei è tornata a baciarmi i contorni delle orecchie, silenziosa. Scivola le labbra sulla tempia, lo zigomo, la guancia. Ha quel suo respiro che sa di famiglia e accoglienza. Allontana il viso e mi guarda, muta. Vorrei dirle ti amo, come sempre, anche se non me lo sente dire spesso. E le sue labbra riprendono quel loro semicerchio sull’altro orecchio, senza chiedermi di parlare. Ancora lo zigomo e la guancia. Ritrovo la sua bocca nella mia, la sua persona nella mia. Nelle mani mi scorre la sua pelle, la curva dei fianchi, il calore delle cosce.
Di nuovo allontana il viso e si solleva sul letto, lasciandomi allungato tra i suoi piedi, a guardarla nuda che mi tira calci sul fianco. Colpi in successioni, poi si ferma, poi riprende. Ad ogni sequenza lo sguardo è più duro, il calcio più forte. Ora posso solo stare rannicchiato e guardarla da una fessura tra le mie braccia. Sta urlando, senza fermare i calci. Ancora quelle storie sulla mia incapacità di impegnarmi, l’inaffidabilità, l’inettitudine, in un infinito processo di annientamento. Sta urlando che di me non ne vuole più sapere, mi spinge col piede, finché rovino, la testa oltre l’orlo della tomba, invece che sul letto.
Apro gli occhi su questo tipo vestito di verde che mi guarda. Mi chiede se non ho un posto migliore dove dormire. Cappellino verde a visiera, tuta verde, cesoie in una mano, l’altra puntata sulla mia faccia. “Che sta dicendo?” mi chiedo. «Se ne vada» mi fa «sono venuto per farle la camera, non vede?» Con la mano libera disegna un arco nell’aria fino a indicare il cancello aperto: «devo lavorare, io!» Mi sollevo in piedi e giro gli occhi sulle croci, le lapidi, i cipressi. “No!” Sollevo la testa dentro un cielo terso, metto a fuoco un volo d’uccelli, lontano tra gli alberi. «Allora?» Guardo il tipo che mi allunga le cesoie fin sotto al naso. «Me ne vado» gli dico e scivolo fuori dal cancello. «Non ci crederà nessuno» gli sento di dire prima di svoltare sulla strada.
Cammino tra i muri di pietra, i reticolati spanciati a filo del terreno, i prati incolti. Non so capire come il fumo di stanotte mi abbia spinto fin qua, in questa zona antica e sciatta. Cammino in direzione del campanile e della chiesa che si nasconde alle sue spalle. Non so quante rivoluzioni siano passate da queste parti. Nessun segno di espropri napoleonici, di abbattimenti bolscevichi, di un anticlericalismo anarchico. Qui prospera la manomorta ecclesiastica, erode i muri, arrugginisce le inferriate, innaffia le ortiche. Potrei parlarne all’esame, di questa impermeabilità alla Storia, questa tenace resistenza nel tuttocomeprima, tuttocomesempre. Ma forse mi sbaglio. Quel che vedo è la vecchia chiesa che fronteggia l’albero monumentale, con quella freccia sulla facciata che punta diritta a Dio. Del passato, in fondo, non so nulla. Gente che entra, gente che esce dal portone ed io che passo, col pensiero a casa, e una stanchezza che non sento più. Devo aver camminato stanotte, per ore a casaccio tra le vie. Ma sono riposato, nonostante la terra invece del materasso e la pietra come cuscino. Potere della sacra pipa della pace. E’ un buon inizio, quest’energia che mi circola dentro, auspicio per il giorno della riconciliazione. La luce del sole, pulita, mi entra fin dentro la pelle, mi riempie di speranza.
Mi butto nel flusso della via pedonale, nel movimento veloce della mattina, tra le commesse che rovesciano acqua profumata sull’asfalto. Anche le Porte romane brillano di pulito, lavate con decine di spazzoloni dai commercianti della strada.
Le persone mi passano accanto o m’incrociano con una sola espressione. Una decisa convinzione di dover arrivare da qualche parte, nei loro volti, di attraversare lo spazio delle vie, superare le piazze. La promessa di cambiare un frammento di sé alla fine del percorso. Guardo tutti e saluto qualcuno, solo un cenno, senza fermarmi. Raggiunta la meta, una minuscola porzione della loro vita non sarà più come prima. E’ il motivo che li ha spinti a lasciare il letto a un’ora infelice. Si muovono per evolvere e non si accorgono che io, invece, sto tornando per ricominciare. Perché loro non ce l’hanno una moglie che se ne è andata di casa per una frase uscita male. Non hanno una donna che è tornata ad aspettarli dopo la tempesta. Non conoscono l’emozione che mi ha preso e mi fa girare gli occhi, guardare il cielo e poi i piedi, i muri e le facce che sfilano, senza un filo di stanchezza, solo la voglia di riabbracciarla.
Vado più svelto, allora, e attraverso la piazza del soldato senza provare invidia per la sua gloria immobile, almeno oggi. Il tempo passa veloce, metto lo spazio tutto alle mie spalle. Fuori dalla zona pedonale attraverso la strada e mi guardo riflesso dentro una vetrina. Mi sistemo i capelli, infilo la camicia nei pantaloni, mi spazzolo i vestiti con la mano. Anche d’aspetto sono pronto all’evento.
La casa c’è ancora. La finestra della nostra cucina è chiusa, anche in estate lei sostiene di aver freddo.
Salgo i gradini a due a due con la chiave in mano.
La infilo nella toppa, giro ed entro.
L’odore di chiuso è insopportabile, per le sue sigarette e la sua paura di correnti d’aria.
Lei è a casa, come speravo.
In bagno mi piego, ti accarezzo con due dita dietro l’orecchio e ti bacio in fronte, a labbra leggere. Dentro la vasca, la nuca sul bordo, mi guardi con quegli occhi che dicono nientecomeprima, nientecomesempre: gli stessi del giorno dell’incidente.
Ancora mi chiedono scusa, i tuoi occhi, per il sangue rappreso che hai sui vestiti, il colore grigio della pelle, la bocca spalancata dove le mosche vanno a fare indigestione. Ancora vuoi chiedermi scusa per non aver saputo resistere alla rabbia, gridato che non avresti mai dovuto sposarmi, lasciato che il coltello con cui tagliavo le cipolle ti entrasse nella pancia, dopo aver urlato che quel figlio non c’entrava con me. Mi hai lasciato rovesciare le nostre foto mentre a terra sanguinavi senza dire una parola. Andavi da lui, quel giorno, un compagno di università, l’hai detto con il sangue che ti infradiciava la maglia mentre ti trascinavo in bagno. Correvi sull’autostrada per dargli ancora una possibilità, nonostante un matrimonio. Fargli accarezzare la pancia e chiedergli ci vuoi oppure no, per l’ultima volta. Nonostante una casa per tre, nonostante me.
Ti scivolo accanto, senza parlare, e mi sdraio dopo aver chiuso le persiane e aperto il gas.
«Non abbiamo avuto la forza di resistere» dico al nostro gatto glabro che starà sempre con noi. Non ha ancora finito di ripulire il sentiero di sangue che dalla cucina lo condurrà qui. La sua lingua ruvida spazzolerà il sacchetto con le tue cose che ti ho messo in mano senza capire che in realtà te ne eri già andata, ma senza passare dalla porta.
Farà presto, il nostro gatto glabro.
Più rapido del tempo che hai impiegato a morire dopo avermi detto che eri sicura di non avermi mai amato.
Prima di perdere un’altra zolla di pelo.
Prima che il gas lo addormenti.
Prima che Zukov decida di sferrare il contrattacco.



10 commenti:

Fabio Mazzoni ha detto...

Sicuramente scrivi in italiano meglio di quanto io faccia con l'inglese. Complimenti per la scelta della lingua. Coraggio!

Anonimo ha detto...

Bel colpo. Non leggo romanzi noir e quindi non ho esperienza "diretta" con questo genere, ma il racconto mi è piaciuto. Ben costruito, fino alla sorpresa finale. Permettimi, un solo appunto: troppa attenzione sui particolari, gli attimi spezzetta molto il ritmo, rallentandolo, a volte, troppo. Questo comunque, forse, fa parte della tua impronta stilistica e non sta a me mettere in discussione ciò che è frutto di ragionamenti e studio. Fermo restando il mio giudizio senz'altro positivo, sento "di pancia" e così parlo. Mi fa piacere notare un tuo miglioramento nelle storie. Ti seguirò con curiosità. Peterpan

Fabio Mazzoni ha detto...

Ti ringrazio Peter per il tuo apprezzamento. Nemmeno io, devo ammetterlo, sono un gran frequentatore di noir. Come tutti i generi di moda, però, si tratta di un gran veicolo per esprire la propria poetica e, soprattutto, per arrivare al pubblico. Insomma, ho scritto un noir per mettere nero su bianco i personaggi, i sentimenti, i particolari che piacciono a me. Sono tre elementi che vanno insieme, però. I particolari che secondo te spezzano il ritmo mi servono per caratterizzare i personaggi, dargli una forma a tre dimensione, farli uscire dalla carta (o dallo schermo in questo caso), collocarli in un contesto preciso.
A questo proposito ti consiglierei (sono prima di tutto un lettore che ama condividere la sua passione) "Le mani del pianista" di Eugenio Fuentes e "Il nome della rosa" di Eco (poi mi dirai del loro modo di usare i particolari anche più minuziosi). Saluti e baci (torna a trovarmi)

Sonia ha detto...

Lo sai? questo è il racconto che mi è piaciuto di più, e strano... non l'ho mai commentato. Mi sono rimaste impresse alcune descrizioni, eppure è tanto che l'ho letto. La casa, il gatto, la città, i loro sguardi. Non sono un critico competente, e quindi non dico niente su aspetti stilistici o altro, però questo pezzo crea emozioni che rimangono addosso. Per questo mi piace.

Anonimo ha detto...

ho letto il tuo racconto e l'ho trovato un po' mistico e a tratti trascendentale nel suo genere..
la tua scrittura ricorda il miglior Tondelli degli esordi anche se si intravedono sprazzi di ispirazione Bhoelliana.
continua su questa via, continuerò a seguirti.
Pablo Neruda

Fabio Mazzoni ha detto...

Beh, Sonia, (stavolta mi sbilancio) credo di essere d'accordo con te. Forse questo è quello più riuscito, più completo sul piano della trama, della contestualizzazione, della psicologia e personalità dei personaggi. Sì questo è quello pubblicato sul libro "Nera Baltea. 7 Noir in Valle d'Aosta". Tutti quelli a cui il libro è capitato tra le mani mi hanno detto che è un bel racconto.
In confronto il povero picaro sbiadisce (o arroscisce) letteralmente.

Fabio Mazzoni ha detto...

Hola Pablo, que tal?
davvero lo trovi mistico? trascendentale?
Il miglior Tondelli credo che sia inavvicinabile (almeno per me) e poi, gli sprazzi Bolliani (perché si parla di Boll, vero?) dove li avresti colti?
Ma stai parlando del racconto di questo post o di quale?
fammi sapere.

Sonia ha detto...

con i complimenti di Pablo ci si scompone :-) Eh!?
...e chi non lo farebbe!!

Fabio Mazzoni ha detto...

ti sembra che Pablo mi abbia fatto dismettere i panni del mio contegno abituale?

Sonia ha detto...

si, mi sembra ti abbia un po' sciolto... e a chi non farebbe lo stesso effetto. Io in studio ho Pablo Picasso che mi guarda con le mani sulla testa... tipo disperazione presente?