Tema

Mio nonno si chiama Fausto. E adesso dovrei scrivere quanto è alto, quanto pesa, come ha la testa, se ha le braccia lunghe, i piedi grossi, i peli sugli alluci e tutte quelle cose che ne fanno il ritratto. Ma io, mi scusi prof, sono sicuro che lei si annoierebbe a morte a leggerle, ché poi com’è fatto mio nonno non interessa a nessuno, e sono fatti suoi, anche. Tiri una rigona rossa e mi dia un bel tre, se vuole, e non vada avanti, io continuo lo stesso, faccia quel che le pare.
Nonno Fausto, dicevo, è un tipo che non parla molto, soprattutto da quando mia nonna è morta, e lui è rimasto lì, nella sua casa in centro, tutto solo a stirarsi le mutande, cucire i calzini, comprare le patate al mercato. E così non gli faccio mai domande sulle sue faccende, quelle di un tempo, voglio dire, di quando era giovane, anche se lei, prof, ci dice sempre di chiedere ai nonni come vivevano quando c’era la guerra e Mussolini parlava dal balcone e la gente si beveva tutte le sue cagate (segni pure, sì, due righe rosse sotto la parolaccia), si beava delle puttanate (ops!) che uscivano dalla radio di Stato e dai telegiornali, quelli che davano al cinema.
Credo che ieri fosse un po’ bevuto, mio nonno, oppure non so, perché si è messo a raccontarmi una storia un po’ lunga di quand’era giovane, prima della guerra, una storia romantica, mi sembra proprio, di quelle che si vedono nei film che guarda mia mamma il pomeriggio, che fanno un po’ piangere, dove la gente vuole fare delle cose ma non ci riesce, e non si capisce perché non possa farle, e questo la rende infelice, e poi parte e sparisce, ma continua a vivere con quel cruccio e poi e poi… insomma, adesso la racconto, prof, ‘sta storia.

Non aveva nemmeno vent’anni, nonno Fausto, che già lavorava alla catena di montaggio. Metteva insieme certi pezzi del motore per decine e decine di auto che lui non vedeva mai quando uscivano finite dalla fabbrica. Dice che faceva sempre quel giro così con la mano destra, poi spingeva in là con la sinistra, in quella fabbrica di Torino che non dico, dove stavano tutti come lui a fare così con un braccio e a spingere in là con l’altro. C’erano grandi rulli, nei quattro piani della fabbrica, binari e bracci meccanici che portavano pezzi di auto di qua e di là, mentre loro stavano sempre fermi, dice mio nonno, in due metri quadrati. Insomma, prof, mentre raccontava mi veniva in mente quel film di Sciarlò che ci ha fatto vedere l’altra settimana, dove a ‘sto operaio s’incriccavano le articolazioni, a forza di su e giù, e veniva risucchiato dagli ingranaggi dei macchinari, anche se poi mi è sembrato proprio strano che non fosse morto.
Comunque.
Dice mio nonno che a quei tempi non c’era molto da fare quando uscivi dal lavoro. Si faceva un giro al bar, mio nonno, a far due chiacchiere con quei quattro strampalati che passavano il loro tempo al tavolo del ramino. Una bevuta, un giro a carte e il barista che un po’ lo prendeva in giro per quel suo tic di girare così la mano destra e spingere in là la sinistra.
Ma era anche un gran lettore, dice, uno che sapeva a memoria dei bei pezzi di poesia di quel Leone (o Leopardo, prof?), tutto quel gran teatro di un Piramidello e quello un po’ tedesco, o austriaco, che si era messo un nome italiano e scriveva dei romanzi in un modo un po’ strano ma che erano i migliori d’Europa, lo dice mio nonno. Io non li conosco, tutti questi qua che scrivevano ai tempi di nonno Fausto, quando ancora non c’era la playstation, il videoregistratore e per telefonare dovevi andare alla Posta o al bar. Ma per me erano un po’ pallosi, scusi prof, ma l’ho detto a mio nonno.
Lui però dice che la sera, quando arrivava a casa, apriva ‘sti libri sul tavolo e li leggeva, poi li rileggeva e quando aveva due soldi ne comprava di nuovi, e stava lì, fino a tardi, sul libro, mentre le mani continuavano quel loro lavoro nell’aria.
Nonostante tutto le cose andavano bene, dice. I suoi genitori (posso chiamarli bisnonni, prof, anche se sono morti prima che io nascessi?), i miei bisnonni, massì, gli volevano un gran bene, anche perché era figlio unico e non doveva litigare con nessuno per stare solo in cameretta, come invece succede a me quando voglio guardarmi i telefilm e mio fratello accende lo stereo col volume a mille.
Però lui voleva qualcosa di diverso, non mi ha detto di preciso che cosa, voleva andare via, in certi momenti, conoscere altre persone, vedere altri posti, farsi passare quel tic maledetto.
Però non sapeva bene come fare, dove andare, che lavoro trovare. Così se ne restava lì, ad aspettare che passasse l’inverno, dice, ma non so bene che cosa intendesse dire.
Aspettava il tram, una mattina, nella famosa Piazza Vittorio Veneto, dice lui, per andare in fabbrica. C’era un suo amico, tra tutti i compagni di lavoro che aspettavano il tram. Parlava con una ragazza, il suo amico. Una tipa proprio bella, dice. Come Di Stefani?, gli chiedo. Chi è Di Stefani?, mi fa. E’ la mia compagna di banco. No, non bella quanto Di Stefani, dice. Ah, mi pareva.
Comunque, questo gliela presenta e se ne va, sembra fatto apposta, prof. Così arriva il tram e loro salgono, visto che ‘sta tipa lavora nel bar proprio di fronte al cancello della fabbrica. Ma pensa te! E insomma, parlano e parlano, del tempo, dei fiori sugli alberi, dei colori della città, e chi più ne ha più ne metta, tra tutta quella folla di braccia che fanno un giro così e spingono in là. Insomma, parlano di quelle cose noiose di cui si può parlare con una femmina come Di Stefani. Che però almeno è una gran bella compagna di banco, prof, ma non glielo dica, che poi si monta la testa, io la conosco.
E poi, l’amica di nonno Fausto si accorge che sono arrivati, lui non capisce già più niente a quel punto. Saltano giù dal tram assieme a tutta quella folla di operai, lui le fa ciao e lei a presto, ci vediamo. E lei va, mentre mio nonno se ne sta lì a guardarle la nuca, i capelli che svolazzano di qua e di là, le spalle che ondeggiano. Dice lui. Perché secondo me guardava più in basso.
Vabbè, ha già capito a ‘sto punto, prof, mio nonno passa tutto il tempo del suo turno a girare la destra così e spingere la sinistra in là, pensando a ‘sta tipa con gli occhi profondi, di un colore che non si ricorda, ma che brillano, dice, e alla sua voce che l’ha ipnotizzato, manco fosse Giucas Casella.
Mio nonno è un volpone, sa. Il giorno dopo si fa vedere, alla fine del turno, in quel bar dove non era mai stato e dove lei lavora. Corrono quegli sguardi d’intesa tra i due, mentre lei si muove tra i tavoli e il banco, con quell’elettricità, le scintille e tutto il resto, come durante le barbosissime ore di matematica che io e Di Stefani passiamo a scambiarci bigliettini. Però loro non si dicono niente, si guardano e basta. In questo sta la magia, dice il nonno. Sarà.
Così arriva il gran giorno per Torino, per l’Italia e per tutti. S’inaugura la nuova fabbrica, quella grande, grandissima, come quelle americane. Mio nonno è in quella folla grandiosa che hanno radunato per salutare il duce che viene in visita e fa sì con la testa, solleva la mano, e fa sì, la faccia fiera e il mento sollevato. E gli passa vicino, a mio nonno, e fa sì anche a lui che vorrebbe dirgli no, proprio no, ma non dice niente. Nonno Fausto se ne va, a gran spinte e passi piccoli, esce da quel bosco di facce. Sale sul tram e si siede. Se non fosse che la nuova fabbrica può voler dire un lavoro più sicuro, un futuro più chiaro, tutti i suoi pensieri sarebbero più bui di quanto già sono, immerso com’è, il suo sguardo, in quell’oceano di camicie nere. Ma sale lei, alla fermata della fabbrica vecchia, e son tutti nuovi paesaggi da ammirare.
Stavolta lei attacca con un panegirico lunghissimo su Dio, la Chiesa, Tuttissanti e il mistero indiscutibile della resurrezione del corpo.
Nonno Fausto rimane un po’ così, perché non sa bene cosa dire. E’ un bel casino, insomma, perché lui, a tutte quelle storie su Gesù, la Madonna, San-Giuseppe-padre-putativo, la prospettiva escatologica, mica c’ha mai creduto.
Dio è amore allo stato puro, dice lei, ogni esperienza, ogni momento, ogni significato profondo della nostra esistenza è regolato da questa verità.
E mio nonno ascolta e annuisce, perso nei suoi occhi, ma non sa che dire. Sì, perché non può credere che il suo tic, gira così e un po’ in là, quello che hanno tutti alla catena di montaggio, e poi il destino degli uomini, quel duce arrogante e ciccione, questa deriva incivile che porta tutti con sé, siano tutti affettuosi regali del buondìo. Non c’è nulla di divino, le dice infine, in questa vita che ho, tra questa miseria di Novecento che credevamo portasse il progresso e che ci ha dato solo guerra, violenza, sfruttamento e oscurità.
Ha detto proprio così, nonno Fausto, mio nonno, mica uno qualunque.
E lei va avanti, non si lascia scoraggiare, con quella storia dell’angelo caduto, del duello tra la luce e le tenebre, della vittoria finale. Basta crederci, dice lei.
E poi scendono, perché sono arrivati, e si salutano, lui un po’ con l’amaro in bocca, lei… forse anche lei, ma mio nonno non sa dire.
Quella sera al bar, nonno fausto perde tutte la mani di ramino, si fa un bel po’ di grappini invece della solita china e risponde sbagliato alle domande. Che c’è Fausto?, gli fa il barista, non sarai mica innamorato?, custa sì ch’a l’è béla! Ah ah ah.
E mio nonno fa quella faccia persa. Con quello sguardo senza la messa a fuoco, muove solo le labbra, piano piano: innamorato…
Meno male che Di Stefani la pensa come me, prof, che ho preso la comunione, la cresima e poi gli ho fatto tié a quel prete che mi voleva far chierichetto, pensa te.

Comunque.
Non si sa bene come, visto l’incidente. Forse perché lei si è messa in testa di convertirlo, forse perché lui è innamorato-cotto-come-una-pera, fatto sta che da quel momento questi due prendono a vedersi, di tanto in tanto.
Fanno delle gran camminate in lungo e in largo. Dalla stazione a piazza Castello, s’infilano in via Po, un saluto alla Gran Madre e poi a guardare Torino dal Monte dei Cappuccini. Me lo son fatto segnare dal nonno, prof, guardi che non sto copiando. E che gran scornate sempre su quell’argomento che lei non si leva dalla testa e che lui, mio nonno, devo dirlo, è così rincoglionito da sciropparsi ogni volta, sempre uguale e martellante.
E’ così che attraversano l’estate, tra un rosario e un picnic in collina, perché ancora non si usava andare a Riccione, a pensione completa, ombrellone, sdraio e discoteca. E nonno Fausto è sempre lì, che l’ascolta e se la guarda tutta: quelle mani da fatina, le braccia sottili, il collo lungo, gli occhi di quel colore sconosciuto, il nasino all’insù e quella boccuccia carnosa che non ha ancora avuto il coraggio di baciare. Sì, perché nonno Fausto è un gentiluomo, dice lui. Ai suoi tempi non facevi in tempo a baciare una tipella che ti ritrovavi davanti al prete, con un completo blu, tutti i parenti, i testimoni e due gemelli in arrivo. Erano tempi duri, quelli, prof, lo dico sempre a Di Stefani, quando fa la schizzinosa. Se eri un po’ sveglio, però, secondo me, magari tra l’erba alta, o nel bosco, non dico chissà che strusciamenti, ma qualche bacetto glielo potevi strappare alla tua tipa. Ma nonno Fausto è un gentiluomo, come ho detto, anzi no, come ha detto lui. Mah.
Quindi, insomma, arrivano dritti dritti all’autunno, senza neanche una carezza, un bisbiglio all’orecchio, un piedino o un baciamano. Il tempo dei picnic è passato e questi continuano a camminare, lei sempre pia e devota, lui ateo e recalcitrante, e a scornarsi, ma forse chissà, un po’ ad amarsi. Almeno il nonno, certo.
Torino si è fatta marrone, nel frattempo, con tutte le foglie sui viali che crepitano sotto il peso del nonno e di questa tipa. Intorno a loro la stagione si prepara a morire, verso la fine di tutte le cose o incontro ad un nuovo inizio, dipende dai punti di vista. Il mondo sta cambiando, non ci sono dubbi, sotto i cingoli dei carri armati di Hitler che entrano in Polonia. Quello dal Balcone dice che l’Italia non c’entra, in questa guerra, prof, ce l’ha detto lei.
E il nonno è cambiato, anche lui. Ci sono solo tempi vuoti tra un incontro e l’altro. I libri sono silenziosi, la fabbrica aumenta i ritmi, al bar si gioca e non si parla quasi più. Si aprono nuovi crateri, ore vuote da allontanare, dimenticare. Nonno Fausto ha maturato il desiderio di una nuova stagione, di un rinnovato senso delle cose, nuovi valori, nuove intenzioni.
E l’inverno lo trova pronto.
Prende a nevicare, all’improvviso, sulle loro teste. Proprio come una bella favola d’amore, prof. Lei si emoziona e si agita, insomma, è tutto un fremito e una giostra di sorrisi e saltelli, con mio nonno che le sta dietro e se la guarda, come fa da un sacco di tempo, se la guarda e se la immagina mentre la bacia e l’accarezza. Se la immagina che vivono insieme e se ne vanno sottobraccio la domenica in piazza, con i figlioletti ai giardini, diventano vecchi intorno a un tavolo apparecchiato, sopra un letto caldo. Mio nonno vuole tutto questo. Lo vuole con lei, che si balocca tra i fiocchi che le bagnano i capelli e le fanno strizzare gli occhi.
Scendiamo al Po, ti prego, dice lei.
Così vanno, via Garibaldi, piazza Castello, via Po e giù, lungo gli scalini dei Murazzi.
Due dita di neve sul terreno, lei che la raccoglie a manciate, l’appallottola e la lancia contro nonno Fausto che non fa neanche una mossa per schivare. Che imbranato, il nonno, gliel’ho detto. Si prende tutte ‘ste palle di neve in faccia, in pancia e anche più giù. Ma non fa una piega, perché è maturo, dice lui. Seh.
Lei si blocca, ad un certo punto, e anche la neve si ferma, a mezz’aria, sì. Il nonno la vede, ferma così, con la pallottola dentro al pugno alzato e non gli importa se si sente i piedi bagnati e freddi. Sta lì, nonno Fausto, a guardarsela per quant’è bella, dice lui.
E lui sta per parlare, la vuole sposare, lui.
Ma parla lei:
Ferma il tempo, Fausto, fermalo adesso.
E mio nonno non sente più niente, solo il risciacquo del fiume. Non vede più niente, solo quegli occhi che lo implorano di fermare tutto, di cambiare le regole, di non lasciare che le cose vadano dove stanno andando.
Ferma il tempo, Fausto.
Sposami e lo faremo insieme, vorrebbe dire Fausto, ma non ce la fa, mio nonno. Non riesce ad opporsi alla corrente, non sa come evitare la catastrofe, nessuno lo sa, nessuno può farcela, prof.

Di nuovo alla catena di montaggio, a fare quel giro così con la mano destra, a spingere in là con la sinistra, ma più in fretta. Il nonno adesso lavora su motori più grandi, di camion. Le voci che corrono, sussurrate nel frastuono delle macchine, non promettono nulla di buono. Si lavora per l’estero, per i paesi in guerra, si dice, ma nessuno sa per quanto potremo restarne fuori. E può esserci un senso in tutto questo, mio nonno deve dare un senso. Se davvero il carrozzone su cui tutti quanti sono saltati sta precipitando in una scarpata, il nonno ha il suo dito sul pulsante di autoespulsione. Può salvare almeno se stesso. Poco importa se il Vaticano ha stretto la sua alleanza con i carnefici, se il Dio d’Israele ha dimenticato il suo popolo, se lui non saprà mai condividere quella fede cieca. Proprio perché cieca.
Lui l’ama. Ama il suo viso, la sua voce, i suoi pensieri, tutto il suo modo d’essere, diverso da lui. Ama questa estraneità, questa distanza, questo loro modo di essere grandi, insieme, di sommarsi ed essere di più e più forti.
L’ama, prof, non so se ha capito. E vuole chiederle formalmente di sposarlo.
Tutta questa tiritera sull’amore e il matrimonio, la scrive in una lunga lettera. Che romantico razionalista, mio nonno.
Il giorno dopo, al bar davanti alla fabbrica vecchia, dove il nonno continua a lavorare: ciao, ciao, com’è, come non è, le piazza questa busta sotto il naso e scappa, nonno Fausto, scappa come una lepre braccata. Ma che scappa a fare? Io non lo capisco.
Quella sera mio nonno si attacca al vetro della finestra, a seguire i fiocchi di neve grossi come bigné che cadono dal cielo, pensando a lei che forse pensa a lui o forse boh e quanti sospironi, prof, e meno male che con me Di Stefani c’è stata subito, ché non avrei sopportato tutta ‘sta commedia.
Passano i giorni e le settimane. Un lungo tempo vuoto.
Hitler si mangia il Belgio e la Francia. Il duce sta a guardare, la fabbrica continua a pompare.
Tra loro lunghi discorsi. Ancora eterni discorsi e trattative. Discorsi che fanno le donne, prof, quando ti dicono che non sono sicure, che ti vogliono bene, ma non sanno ancora se te ne vogliono come a un fidanzato, un fratello, un cugino o un prozio.
E lui non la vuole perdere, comunque, e lei non lo vuole perdere, comunque, ma ha paura. Ha paura, lei, che lui si stanchi di questa situazione di stallo, di questa amicizia non-amicizia e lui ha un timore. Teme, lui, che lei intenda normalizzare i sentimenti, quelli di lui, neutralizzare la sua passione, anestetizzare la sua tachicardia.
Queste storie, insomma, che si sentono spesso in giro.
A me non è mai successo, prof, io non mi faccio fregare.
E poi c’è quella questione su Dio, sulla fede e sulla religione che lei mette sempre avanti. E lui dice d’accordo. Ma lei dice non basta, non basta che tu dica d’accordo, come non basta che io dica d’accordo a te. Bisogna accettare l’amore, accoglierlo in sé e donarlo. Non so, continua lei, non so se sei pronto a tutto questo, non so se sono pronta a tutto questo.
Solo il duce si sente pronto, prof. Mentre loro sono lì che si scavano i sentimenti a cuore aperto, il Mussolini consegna la dichiarazione di guerra. Vuole fare lo sgambetto alla Francia e sfondare i Balcani col suo culone. E poi chi lo sa.
E così il nonno deve partire, prof. Ha raggiunto quell’età in cui si va alle armi, che sia tempo di pace oppure di guerra. Al nonno è andata male. Alla fabbrica metteranno qualcun altro al suo posto, qualcuno più vecchio, non adatto alla guerra. Deve presentarsi in caserma, presto, molto presto. Dovrà conquistarsi anche lui il suo pezzo di storia. Con un po’ di addestramento e gli anfibi di cartone sarà pronto per marciare sul fango greco, fin dentro l’inferno russo.
Deve andare, prof, io non so come possano farlo, deve partire anche se non ne vuole sapere di andare alla guerra. Finalmente se ne andrà da lì, d’accordo, a vedere il mondo. Ma non è il modo.
E non ha che pochi giorni. Li passa camminando in lungo e in largo, in quelle notti calde di giugno, mentre la città trattiene il respiro perché non sa quello che l’aspetta. E poi ritorna sull’argine del Po, mio nonno, guarda l’acqua. Stringe gli occhi e si concentra:
Fermati!
L’acqua scorre, non c’è niente da fare. Non c’è il tempo per correre e svegliarla, per chiederle di stare insieme, adesso, per sempre in questo adesso, senza la fabbrica, senza la guerra e il duce e il Vaticano. Solo loro due, solo l’amore.
Il Po continua a scorrere.
E il nonno parte, con la tradotta, verso le Alpi. Senza nemmeno salutarla, prof. Senza dirle ciao, dammi un bacio, dai, che sto partendo e forse non ci rivedremo mai più, è stato bello, per quello che è stato, ma dammi un bacio, ora, dammi un motivo per ritornare.
Niente di tutto questo.
Solo una folla di pianti, baci e carezze. Una calca di mamme, papà e fidanzate, e il mio bisnonno che gli stringe la mano e lo abbraccia, fatti onore, e la bisnonna con la faccia tutta bagnata e gli occhi rossi che non dice niente. Nessun altro per lui, prof, che guarda i baci degli altri, ne ascolta le promesse che lui non può fare nemmeno a se stesso.
Qualche sbuffo nero, uno strattone ai vagoni e tutti a cantare, per tenersi su e non buttarsi dal finestrino, per gridare alla vittoria e alla gloria che si va a conquistare, per non pensare a quel che si sta per lasciare.
Si va, e il nonno canta la gloria e l’onore, canta e saluta, insieme agli altri, solo per non pensare alla poesia che ha scritto.
Una poesia, pensa te.
Che ha spedito dalla stazione, a cento metri da dove abita lei.
Che fa così:

Scoprivo i tuoi occhi,
in sogno li ho visti.
Cadeva una lacrima,
potevo affogare.

Un sorriso ed ero in volo.
Volevo afferrarti,
sopra pianure e città
e ridere ridere da quella distanza

di quegli stupidi laggiù
che non conoscono l’amore.

Oddio che brividi, prof. Sto per vomitare.

Se in Francia fu una passeggiata e il nonno non sparò nemmeno mezza cartuccia, che tanto avevano già fatto tutto i tedeschi, in Grecia, tra gl’impantanamenti e le imboscate suonò tutta un’altra musica. Ma anche quello non fu niente in confronto alla scia nera che i soldati italiani lasciarono sulla neve russa. Nonno Fausto c’ha lasciato due dita e troppi amici in quel freezer.
Nella primavera del ’43, sul treno che tornava in Italia, nessuno cantava, prof. All’inizio di settembre mio nonno tornò a Torino, in licenza. Seppe che lei si era sposata, nel frattempo, con uno di quegli inabili alla guerra che restarono a fabbricar mitragliatrici, munizioni, pistolette e fuciloni, ma senza usarli. Una specie di prete spretato, o diacono, o che ne so. La guerra aveva fatto sentir tutti più soli, figuriamoci quelli rimasti a casa. Dovevano pur consolarsi, in qualche modo.
Ecco perché Nonno Fausto non c’era, quando quelli di Salò vennero a casa dei bisnonni per arruolarlo. Se n’era già salito in montagna, lui, a combattere i fascisti, i nazisti e la sua personale disperazione.
Alla fine mio nonno entrò a Torino imbracciando il fucile e fu una gran festa, alla fine, quando i panzer lasciarono la città. Avevano tutti ‘ste facce emaciate e pallide pallide, nonostante fosse primavera, ma che gran sorrisi e urla e balli, per le strade, soprattutto le donne, come ridevano e ballavano, le donne.
Gli americani arrivarono quando ormai era tutto fatto e le strade erano ordinate, non pulite, certo, ma la gente aveva voglia di ricominciare, riprendersi la propria vita e ricostruirla.
Il nonno consegnò il fucile, perché non ne voleva più sapere. C’era la nonna, con lui, una paesana che l’aveva nascosto quando si era dato alla macchia e, in seguito, l’aveva messo in contatto con la banda. Si sposarono in luglio, con la benedizione dei bisnonni, e il nonno fu ripreso alla fabbrica.
Vennero anni migliori, ma non uguali per tutti, come invece si raccontava nei discorsi notturni sulle montagne. C’era chi sfrecciava con la spider sulle nuove autostrade, tra Cortina e la Versilia, non versando una lira di tasse, nemmeno per quell’attico a piazza Navona. E chi, la ricchezza della nuova Repubblica, la faceva con quelle mani su cui poi non restava niente.
Se c’è una cosa che la guerra mi ha insegnato, mi dice il nonno, prof, se esiste una sola cosa buona che ho portato a casa è la necessità di salvare la truppa sotto il fuoco, perché la loro vita è anche la mia, perché abbiamo un destino comune. Se ho trascinato moribondi sul ghiaccio delle steppe, se ho estratto pallottole dalle braccia dei compagni, non potevo restare a guardare come ci stavano succhiando il sangue in quella fabbrica.
Mio nonno ha partecipato a tutti quegli scioperi di cui lei non ci parla mai, prof. Ha picchettato davanti ai cancelli per settimane, con mia nonna che gli portava la zuppa calda nel gavettino, e si è preso anche un bel po’ di pugni da certi stronzi che non avevano capito che il fascismo era morto e sepolto. Insomma, non era più quel ragazzotto che si chiudeva in casa a leggere e cagarsi sotto. E adesso penso che se lui ultimamente se ne sta sempre un po’ sulle sue è perché pensa di aver avuto una grande sfortuna a vivere in un tempo così terribile e violento, non come certi vecchietti che dicono sempre ai miei tempi era così, ai miei tempi era cosà. Epperò, secondo me, prof, gliel’ho detto a mio nonno, lui deve essere anche fiero di aver fatto quello che ha fatto, nonostante tutto. Nonostante Mussolini, nonostante la guerra e le mitragliatrici, nonostante la Bomba atomica e Valletta. E lui dice, sì, forse è vero. Però non è così sicuro, perché negli ultimi giorni non è più sicuro di niente, mi dice. Dice che ha incontrato quella tipa, dopo sessant’anni, adesso che la nonna non c’è più e che anche il suo diacono è volato in paradiso a servire la Madonna, San Giuseppe e Tuttisanti. Dice che lui passeggiava, l’altra mattina, in via Madama Cristina, per fare due spese. Dice che ‘sta donna gli camminava davanti, già da un bel po’, e a un tratto le si è sfondato il sacchetto e le arance son rotolate di qua e di là. Il nonno le ha raccolte e le ha detto l’accompagno, dove va? Che imbarazzo, mi dice, perché lei diceva grazie che gentile non si disturbi, e lui, ma si figuri, lo faccio con piacere, ho tempo, sa, son pensionato. E così han cominciato a parlare e a dirsi quelle cose che qui a Torino la gente in genere non si dice, perché ha paura di tutto, la gente, qui, a Torino. Così vien fuori: chi è lui, chi è lei. E quasi si mette a piangere, lei, capelli imbiancati, occhi schiariti, con le mele, stavolta, che rotolano di qua e di là. E il nonno che corre a raccoglierle, anche se non gli bastano le mani e le tasche e quasi sta per piangere anche lui.
Dice che si dimenticano del tempo e passeggiano tutta la mattina e un pezzo del pomeriggio con le mele e le arance in un nuovo sacchetto. I sessant’anni del nonno, i sessant’anni di lei: centovent’anni in poche ore. Che bella storia, prof, lei non c’ha le lacrime agli occhi?
E il nonno non sa, mi dice, non sa che fare, adesso. Non sa se tornare a camminare con lei, in lungo e in largo, piazza Castello, via Po, piazza Vittorio, i Murazzi, camminare e parlare. Parlare della nonna, del suo lavoro e della guerra. E chiedere ancora di lei, del suo diacono, della sua vita da casalinga, del suo lavoro alla fabbrica con le altre donne quando gli uomini erano in guerra. Del matrimonio.
Io gli dico chettifrega, ritorna a camminare, nonno!
Ma lui dice che non sa, per la nonna, per i suoi sessant’anni in più. Per quella faccenda con Dio che non può consolarlo. Per il tempo che non si è fermato quella notte sotto la neve. Per tutta quell’acqua che è passata nel fiume e adesso è più opaca.
Quel tempo è andato, mi fa, non possiamo farlo tornare. Siamo vecchi, aspettiamo la fine, anche se è già venuta una prima volta, l’aspettiamo ancora, e sarà l’ultima.
Ma io non lo capisco.

Così mi son stancato di scrivere, prof. Perché mio nonno a ‘sto punto mi ha fatto proprio incazzare e va finire che poi me la prendo con Di Stefani, che sta guardando e mi fa quel gesto con la mano che vuol dire:
allora hai finito con ‘sto tema o te ne stai lì a scrivere fino a domani, che ormai han consegnato tutti, che così ce ne andiamo in bagno a pomiciare?
Sì sì ho finito, dai, adesso arrivo, stai calma. Oh ‘sta donna, prof, non ne posso più.
Comunque, volevo solo dirle che lo so che ‘sto tema l’ho scritto un po’ maluccio, perché ho scritto le cose così come mi venivano e non c’ho avuto il tempo di scrivere tutto bene, in bella grafia, svolazzi compresi e poi, lo so, son saltato un po’ avanti e un po’ indietro con i tempi dei verbi, ma è per dare risalto a certe cose, farle apparire vicine anche se lontane, avvicinare l’azione, mi capisce, vero? e poi, insomma, faccia un po’ lei, tanto non me ne faccio niente di un bel voto.
La storia di mio nonno, l’ho raccontata. Son contento così.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Un quarto d'ora libero qui in ufficio, allora clicco e leggo. E mi ritrovo a piangere, perché a me la storia mi commuove, l'epica della Resistenza mi commuove, la difficoltà di far sopravvivere i sentimenti nella bufera del mondo sciocco mi commuove, quindi sono qui davanti al monitor che piango, con i colleghi che passano tutti concitati e indaffarati e io che ho preso il volo verso una bolla no-time no-space.
Grazie per la tua scrittura, così emotiva e così ricca.

Sonia ha detto...

Mi sono ritrovata il tuo racconto per le mani ieri mattina. Lo avevo stampato un po'di tempo fa ma mai letto. Ieri è volato, d'un fiato. Quella voce narrante un po' gnegne alla fine è diventata simpatica. Un bel modo per iniziare la domenica.