Un lungo tappeto di neve

Se solo Alice l’avesse voluto, mi sarei infilato nella sua vita, non solo nel suo letto.
Lei aveva un amore, un amore tutto suo, che le distendeva le linee del viso, le colorava la voce. E aveva un incanto nelle parole, quando indicava i percorsi ai naufraghi divoratori di significati, tra gli scaffali della nostra biblioteca.
Alice sosteneva di non poter rinunciare all’emozione del racconto, quando, messi i lettori alla porta, aprivo a caso un libro di Fante o Garcia Marquez e glielo leggevo: cedeva alle lusinghe della mia voce solo per lei e distoglieva gli occhi, senza trovare la giusta collocazione ai libri che stringeva nelle mani. Sapevamo dare la colpa ai lettori distratti, quando La cura del bonsai finiva tra Tokyo blues e La cucina macrobiotica. Era il nostro piccolo segreto.
Da parte mia, facevo anche di peggio: avevo scritto una dichiarazione d’amore sul frontespizio di un libro di Carver che lei avrebbe dovuto catalogare. L’avrei stretta con tutte le mie forze, mentre mi ordinava di ricomprarlo pagando di tasca mia: sapevo che avrebbe tenuto per sé quell’unica irripetibile copia.
Avrei dato per scontata una simmetria alle mie trepidazioni. Ma c’era quel suo amore tutto suo.
Un mero scambio di tempi e tutto si scombina: lui l’amore per sempre, io il ripiego.

Quel venerdì prima di Natale, con la scusa di una cena tra colleghi, prenotai un tavolo per due nel ristorante più caro della città. Da una settimana avevo montato le gomme da neve e l’auto si mosse sicura, determinata alla meta. Arrivai con mezz’ora di anticipo, perché non potevo permettermi alcuna approssimazione. Nell’attesa ascoltai i discorsi a mezza voce provenienti dagli altri tavoli e chiesi al maître di suggerire un menù romantico. Quando Alice entrò, seppi che avevo un’occasione unica, irripetibile.
Venne a sedersi e mi parlò della neve che aveva cominciato a cadere lenta sopra la città. Guardai brillare i suoi capelli, arrossarsi le guance.
Nel corso della cena mi domandò le ragioni della mia passione per il nostro lavoro, della mia ostinazione a rinchiudermi con lei in quattro mura stipate di libri, a condurre le persone tra le parole che raccontano i loro amori. Dovevo dirle che la risposta stava nella domanda, che avevo questa passione per le storie e le parole, e per questa storia e queste parole che tra noi stavano crescendo. Ma le dissi semplicemente che avevo le sue stesse ragioni, sperando che fosse la verità.
Prima del dolce, la feci ridere, citando a memoria un brano di Bukowski, e poi rattristare un poco, dopo il caffè, con quel Tondelli che ancora non mi son tolto dalla testa.
Tagliò corto (dovevo averla proprio annoiata) proponendo di andare a bere qualcosa, in un posto un po’ più movimentato di questo mortorio.
Fuori, la neve copriva i marciapiedi, gli alberi e la strada. In macchina il silenzio delle grandi nevicate creò un’intimità imprevista, languida, solo un poco temperata dalla certezza delle ruote da neve che solcavano la strada. Il suo amore tutto suo piombò all’improvviso a respingere la carezza che era scesa sulla mia anima. Era immenso, il suo amore, in grado di saturare il desiderio di una donna, di riempirne l’orizzonte. Lui solo. Alice disse che non avrebbe desiderato di più per sé, per nulla al mondo.
Ancorai gli occhi alla strada, concentrato su quelle parole che mi tenevano lontano, e poi li chiusi, sentendo il mio corpo spinto ai margini, accompagnato fuori.
Lei urlò.
Un gatto.
Avevo investito un gatto.
Le chiazze rosse che si allargavano sulla neve battuta mi sospesero il respiro. Era un gatto nero, niente di più visibile sul tappeto di neve. Dalla gola gli uscivano lamenti imploranti e soffi aggressivi, quando ci avvicinammo. Voleva scappare, ma non ci riusciva, si scuoteva e ricadeva sullo stesso lato. Soffiò ancora rabbioso quando gli infilai una mano sotto il fianco per sollevarlo, poi si abbandonò con rassegnata acquiescenza.
Conosco un veterinario aperto tutta la notte, disse Alice, presto.
In macchina il gatto non si lamentò, sentivamo il suo respiro, mentre guidavo trattenendo il fiato e Alice mi indicava la strada con mezze parole.
Parlai al citofono con un’emergenza nella voce che non mi aspettavo. Passarono almeno cinque minuti, un’eternità, prima che quell’uomo, con il camice aperto sopra un pigiama, venisse ad aprirci. Mentre Alice gli spiegava dell’incidente, tornai alla macchina per raccogliere il gatto dal sedile posteriore zuppo di sangue. Tra le mie mani riprese a lamentarsi, senza tentare di divincolarsi. Sul tavolo del veterinario ammutolì, guardandosi intorno, strizzando gli occhi non abituati al neon.
Il tizio, camice abbottonato, si accese una sigaretta e gli infilò l’ago di una siringa nel fianco. Si fece un paio di boccate soffiando il fumo verso il bianco della luce, poi lo sollevò con la mano libera dalla sigaretta come un corpo senza vita, abbandonato alla gravità, portandolo in un’altra stanza.
Tornando disse che il gatto aveva una brutta frattura ad un osso della zampa posteriore destra, ma che l’emorragia si era arrestata, che gli aveva fatto una fasciatura provvisoria e che l’avrebbe operato la mattina seguente. Tornate a prenderlo domattina, buona notte.
Fuori, sotto la nevicata, Alice disse che era tardi per quella bevuta e che casa sua era lì, svoltato l’angolo, ci beviamo una tisana.
Il suo amore tutto suo quella notte dormiva altrove, per motivi su cui non indagai.
In quella casa, dove ogni stanza era pronta per il Natale, ci scaldammo le mani sulle tazze fumanti, parlando poco, i pensieri al respiro del gatto, quell’assenza di vita dopo l’anestesia, il fumo che aleggiava sotto il neon. Non so come successe che ci trovammo sul letto, davanti alle foto del suo amore dal sorriso inconsapevole, a scandire i nostri respiri, scambiarci gli odori, scivolarci dentro.
Ricordo con precisione il dorso blu del libro di Carver che faceva promesse dalla libreria di fronte al letto.

Il veterinario fu felice di accettare la mia carta di credito il giorno dopo, un sabato mattina lucente, a quattro giorni dal Natale. La gabbietta me la prestava soltanto, ma mi lasciava le lastre con la frattura in evidenza. Il gatto si era svegliato, muoveva la testa lentamente, silenziosamente, steso sul lato sinistro, con quella vistosa fasciatura attorno alla zampetta steccata.
Vicino alla casa di Alice, lasciai la macchina in un autolavaggio. Il ragazzo disse che avrebbe fatto il possibile per quel sedile. Me la teneva fino a lunedì.
Camminai sulla neve indurita della strada fino alla porta e suonai.
Il gatto era calmo, sonnecchiava.
Venne ad aprirmi il suo amore tutto suo.
Dissi ciao. Ma lui aveva occhi solo per il gatto: mamma c’è un gatto, volevo un gatto per Natale, mamma vieni.
Alice lo raggiunse sulla porta, si chinò sulla gabbia guardando con compassione.
Entrato in soggiorno posai la gabbia sul pavimento e aprii lentamente lo sportellino. Il figlio di Alice, inginocchiato, tratteneva il respiro sgranando gli occhi. Come me. Come lei.
Timidamente il gatto allungò il muso nero fuori dalla gabbia, annusando l’aria. Fece un passo e cadde sotto il peso della fasciatura prima di essere fuori. Afferrandolo ai fianchi lo rimisi sulle zampe allontanando la gabbietta col piede. Un passo, due passi, disegnò un semicerchio sul pavimento e cadde su quel fianco troppo pesante. La sbornia dell’anestesia non gli era ancora passata.
Con due dita il figlio di Alice lo accarezzò sulla schiena. Lei guardava con quell’apprensione di mamma. Poi sorrise, quando vide che il gatto si abbandonava alle carezze. Suo figlio disse grazie signore, guardandomi con tanto d’occhi, grazie per questo regalo.
Allora Alice mi dedicò tutto il suo sguardo. Desideravo solo lasciarmi condurre. C’era un discorso in quegli occhi. Dicevano di quanto amore c’era in quell’amore tutto suo. Abbastanza da colmare la sua vita. Abbastanza da assicurarmi che per me non c’era posto.
Il mio era il posto del bibliotecario, dell’amico tenero e insostituibile, che uscì dalla sua porta, per tornare a casa a piedi, un sabato mattina pieno di luce, a quattro giorni dal Natale: non erano che pochi chilometri sopra un tappeto di neve.

6 commenti:

Sonia ha detto...

...ma quanta dolcezza su questo tappeto di neve! Bello mi piace e mi era sfuggito!
:-*

Anonimo ha detto...

ti era sfuggito perché l'ho pubblicato qui solo di recente.
prima era solo su carta, dentro un'antologia che ha circolato poco, pochissimo.
grazie per le smancerie, ehehe
;-)

Sonia ha detto...

prego, non c'è di che!
... ma una domanda no? quanto dobbiamo aspettare per leggere altro?
:-)

Anonimo ha detto...

sicura di aver già letto tutto?

Sonia ha detto...

Quello puoi dirlo solo tu, io il "tutto" - l'opera omnia si dice così no? - non lo conosco...

Anonimo ha detto...

uff, faticosa, però... mi riferivo a quanto pubblicato qui sopra... :-p