Questi anni

E pensare che quella sera si voleva solo farsi un giro. Vedere gente, si voleva, farsi magari due salsicce nel pane, o un kebab, qualche lattina di birra, trovare venti carte di fumo e sgattaiolare a casa. Solo questo si voleva. Ma vallo a spiegare a ‘sti poliziotti. Vallo a spiegare.
Par che non lo sappiano, loro, che alla gente basta poco per viver bene e godere del giusto. Chiamala democrazia, o libertà, come vuoi, ché non c’è necessità che si mettano in mezzo, questi. L’abbiamo capito. Colpa mia, in fondo, che li ho chiamati.
Studiare e viver lontano dalla propria città è pur cosa triste, insomma, se non per le cene col dolce, le uscite all’Imbarco e il poker. In ordine sparso, s’intende. Altrimenti non so come si farebbe ad arrivare alla laurea. Non lo so proprio, senza queste attività che ci tengono vivi, senza il nostro impegno per la beneficenza.
Le notti al tavolo del poker fruttano un bel gruzzolo a chi sa giocare e ha la fortuna dalla sua. E che nessuno ci venga a parlare di gioco d’azzardo. Si tratta di raccolta fondi. Chi si siede al tavolo con noi sa che dovrà destinare le sue vincite alla causa dell’autofinanziamento.
Ho vinto venti carte quella sera, una di quelle magiche, in cui riesci a farti il piatto con una coppia di donne, grazie al coraggio di arrivare fino in fondo alle puntate e una buona stella che ti assiste. L’ultimo stock di fumello era giusto andato in chiusura della cena, al posto del dolce, forse per questo son stati tutti più generosi nei rilanci, ma poi insicuri al momento di vedere. Insomma gli altri han sbagliato le loro strategie regalandomi venti carte da spendere in fumo giù all’Imbarco, la notte prima di un esame, il modo migliore per arrivarci sereno.
Ci sono poche cose al mondo che valgono una cena innaffiata di chianti, un poker tra di noi, un’alba all’Imbarco a riempirsi lo stomaco di kebab e birra. Ma quella notte le cose sono andate storte, al punto che non so se ci torneremo presto, giù all’Imbarco.
Son cose che ti fanno pensare, quelle accadute. Prima di tutto a noi, ai nostri schemi, i nostri riferimenti. Li metti a confronto con il resto e capisci che qualcosa non funziona, non calza. Ma vai a capire dov’è il guasto. Vallo a capire. Prendi il sistema di tassazione che abbiamo in casa. Studiamo economia, per noi è stato facile architettarne uno ottimale: norme e sanzioni stanno scritte su fogli appesi in cucina. Gli ospiti non ci prendono sul serio e si burlano di leggere “scoregge a tavola: 3 ghinee”, “piedi in faccia: 3 ghinee, senza calzini: 4 ghinee”, “mostrare caccole: 3 ghinee, lanciare caccole: 4 ghinee, mostrare e/o lanciare caccole a tavola: 5 ghinee”. L’ospite sghignazza, depreca lo sconquasso dei nostri cervelli: non vuole capire che il pollo che sta masticando è frutto di queste regole e s’incazza se i nostri piedi nudi gli svolazzano sul naso o se trova una caccola sul bordo del piatto. Non vuole intendere che in questo modo ci sarà da mangiare anche domani, se vorrà ritornare a farsi spennare al tavolo del poker e fumare con noi, all’alba, giù all’Imbarco.
E’ il meccanismo delle nostre finanze, per noi e per l’ospite che varca la soglia. Dreniamo risorse dai nostri cicli vitali, per poterli reiterare, per proseguire gli studi, senza la fatica che ti può far fallire. Per questo rimbalzare a un esame costa dieci ghinee, ma se lo passi devi offrire un tacchino con anche del vino, per far festa, è logico, con noi della casa.
Se c’è un guasto è negli altri, non può essere che così, in quelli che pensano che siamo dei pazzi fancazzisti e cannaioli, che storcono il naso alle nostre cene e parlottano agli esami appena scorgono le nostre occhiaie. Saremo laureati molto prima di loro, questo è certo. Ma il pensiero rimane.
E insomma, pensavo a tutt’altro, perché era sottinteso che si era nel giusto, mentre si scendeva giù all’Imbarco, quella sera prima del mio esame. Pensavo che si doveva trovare il tipo giusto, quello che di solito ce lo dà buono, non quella merda che rischi di trovare.
L’odore delle salcicce fritte saliva sulla strada. Già dalla scalinata che scende sulla banchina si vedeva un gran movimento di colori strapazzati dalla musica dei locali ricavati nei depositi dei pescatori. Sotto era un circo d’incroci, saluti e smorfie, che ci girava intorno, come a stare in mezzo alla pista, ubriacante più del chianti che a cena non avevamo risparmiato. Solo il fiume era calmo e nero, e a guardarlo mi pareva di muovermi nel senso contrario al suo.
In girotondo intorno a noi è tutto un “fum’amigu fumo bono”. Ma cerchiamo quello buono davvero, disposti a ventaglio, in formazione a far no con la testa e la bocca tutt’intorno. Ci muoviamo sui duecento metri di banchina, da un capo all’altro, una, due volte, attraversando il fumo di salsiccia, l’urlo di un sax, i richiami dei tamburi, una folla di gente indaffarata, anche loro da un capo all'altro a cercar chissà. Forse se stessi, come noi, che ci spacchiam le palle di cercare e ci parcheggiamo su un muretto a sull’umidità del fiume.
Se stai seduto ti metti a meditare sul riflesso della luna tra le increspature della corrente, lubrificando pensieri sul da farsi con una lattina di birra nella mano. Potevo immaginare da quel primo segno che la notte sarebbe girata storta. Saper interpretare certi segnali fa parte di quel groviglio di cose ancora da imparare in questa nostra vita. In quel momento il pensiero del mio esame, il vino in corpo, l’odore di salsiccia e venti ghinee da spendere c’inchiodavano lì. Se aggiungi quella tipa, trecce a colori e toppe sfrangiate su certi gonfiori dei pantaloni, che s’infila nell’ingresso dell’Antrace portandosi dietro i nostri sguardi, capisci che non potevamo che seguire l’istinto.
Così c’imbuchiamo all’Antrace schivando il controllo tessere: il buttafuori alla porta è uno che sa perdere al poker. Dentro, luce quasi a zero e musica a mille, un reggae liscio liscio e seducente. Di tipelle se ne vede qualcuna, poi molte altre, sardine compresse nella folla, sciolte ballerine. Questa appoggiata alla colonna mi guarda mentre le parlo e poi se ne va. Sarà la puzza di chianti. Giravolto su di me e sono ancora lì, lei non c’è più. C’è la treccioluta più in là, le toppe sul punto di scucirsi sopra i suoi piegamenti di sardina carnosa. In due manovriamo a tenaglia sulla tipella, strisciando sui suoi gonfiori, lei che sente ma non guarda mentre balla. A un ubriaco può bastare, all’altro no. Così mi allontano per altri fiumi e sollazzi. E l’altro continua con le sue spinte come carezze, lei solleva le braccia ad occhi chiusi, lui accarezza con le mani quei fianchi arresi, finché può. Finché un tracagnotto lo stringe ai fianchi rovesciandolo all’indietro. E gli è addosso nel buio dei divanetti, un grumo nero che si contorce, su cui ci buttiamo, prima dispersi e ora ritrovati, di nuovo un gruppo a dividerci gioie e dolori. Dolori per tutti, perché il tracagnotto non lesina calci, pugni, gomitate, morsi e anch’io picchio e anche gli altri, dove capita, che forse lui è il solo a non prenderle. Scivoliamo via, che ancora le diamo, trascinati da buttafuori che non sanno perdere al poker. Fin sull’asfalto.
Fuori, tra le gambe della gente che spinge per entrare, ci guardiamo e ci tocchiamo per capire se siam noi e se siam tutti. Il tracagnotto dileguatosi, scopriamo il tipo del fumello buono, lungo il profilo del muro, seduto sullo scalino, che ride a guardarci sgualciti e arruffati. Ride e sta zitto perché il suo è il migliore e non ha bisogno di dirlo.
Dice solo: quanto vuoi? e noi: venti, contandoci i buchi nei pantaloni, e lui ride ancora a vedermi la suola scollata della scarpa che dice ciao ad ogni passo, mentre lo seguiamo. Ma si muove di poco, a confondersi nella gente in movimento, staccando pezzetti morbidi, va bene così? dice, ancora un po’, e ride ancora: nocomprafumo compramaglianuova!, per il buco che scopre all’altezza della mia spalla. Do le venti e intasco il bottino, vieni con noi, gli faccio, c’ho da fare, se ne va ridendo e zitto a zigzag nella folla. Fatti trovare la prossima volta.
Al muretto, chi scalda un pezzetto, chi arrotola un filtrino, chi alliscia una cartina, chi estrae una sigaretta, siam tutti al lavoro intorno al bottino. Coordinati e calibrati, operai tesi al prodotto finito, finalmente. Dopo tanto penare si prepara il risultato.
Eccoli ‘sti bastardi, una voce truce alle spalle, una rasoiata che interrompe la catena, blocca la fabbrica. Quello al centro è il tracagnotto, altri mai visti, abbastanza da capire che le cose si mettono male. E così incazzati che tutto il fumo dell’Imbarco non li potrebbe ammansire.
Che succede ragazzi?, faccio un po’ calmo e un po’ no, a difesa del buon fumo sbriciolato nella conca della mano.
Succede che muore chi tocca le donne degli altri, fa il tracagnotto.
Addio a quel fumo che se va col vento che lo soffia nel fiume. Pensare a che fare in certi momenti è un’impresa da Nobel. Stiamo fermi e zitti, sotto il vento a seguir l’evoluzione. Questi ci guardano con gli occhi rotanti e i pugni ben chiusi nell’aria di questa notte che si è messa proprio male. Buttarsi nel fiume sarebbe una via, far la sirena con perizia ventriloqua impossibile, conoscere l’arabo risolutivo. Così, mentre questi rosicchiano la fascia di sicurezza tra noi e loro, mi scappa la faccia a sinistra e un SALÀM HABIB urlato alla folla indistinta e una fuga a rotta di collo a destra, che si sa che sti attaccabriga di professione non son mai troppo veloci di cervello. E son via, mischiato tra la gente che puzza di salvezza, a cercar le scale che salgono alla città, incontro alle regole, la sicurezza, le buone abitudini. In cima alle due rampe mi assicuro di non essere seguito e tiro il fiato, i gomiti sul parapetto, la faccia contro lo sterno a cercarmi il respiro. Sento alle spalle la voce da poliziotto che sfoga insoddisfazioni familiari sulla collega annoiata. Cerco con gli occhi i compagni sulla spianata dell’Imbarco senza staccare i gomiti dal muretto. Quello dice che la moglie è una matrona arrogante e che da fidanzati era diversa, tu cosa pensi di me? fa alla collega. Colori di gente e fumo di salsiccia sotto i lampioni gialli, fiumana che scorre senza una corrente, a ridosso del fiume che invece sa da che parte andare. Ma dei miei nessuna traccia in quella confusione. Così mi giro e vado verso la poliziotta che dice all’altro che è un ragazzo sensibile e inquieto. Mi fermo davanti a lei e le parlo. Il ragazzo sensibile mette d’istinto una mano sul manganello. E allora spiego anche a lui della serata virata in malora, della zuffa a cui mi son sottratto, io solo, dei miei compagni ancora lassotto a prender pugni da quei bifolchi che han trovato il loro modo di risolvere la serata.
Sei ubriaco, fa lui.
Senti, ho bevuto del vino a cena, ma questo non c’entra…
Che ci sei andato a fare all’Imbarco?
A passar la serata, dico senza capire da che devo difendermi, sentite, laggiù stanno massacrando i miei amici, lo dico e sento che ho preso a gridare.
Lo sanno tutti che là sotto è pericoloso, fa il ragazzo sensibile senza smentirsi.
Ma questa è un’emergenza, BISOGNA AIUTARLI.
Io laggiù non ci scendo, fa lei guardandolo in cerca di conforto, mentre lui accarezza il manganello per decidere il da farsi.
Ve lo chiedo per favore…
Lei decide di chiamare la centrale.
Hai un documento? dice lui.
Come?
Fammi vedere la carta d’identità.
Oh cazzo. La cavo dal portafoglio e la do a lei che ritorna in macchina. Ma non capite che non possiamo aspettare? che una banda di sette otto stronzi sta spaccando le facce dei miei amici, siamo studenti universitari, non andiamo in cerca di guai, lo capite o no?
Studenti universitari… e perché non siete a casa a dormire, non è così dura come dicono, l’università, non studiate la mattina? Che cazzo ci siete venuti a fare in questo posto di merda in piena notte, eh?
Cazzo…
Allora? ha sfilato il manganello e con la punta mi solleva il mento.
Per divertirci…
Per divertirci, ma sentilo -. Adesso lo sfollagente me lo punta sullo stomaco. - Qui non si diverte nessuno, qui si viene solo per la droga: i marocchini vendono merda e gli stronzi come te la comprano e a rimetterci è chi se ne starebbe da tutt’altra parte invece di questa fogna ad ascoltare i piagnistei di studenti-figlidipapà-che-non-hanno-di-meglio-da-fare-che-mettersi-nei-guai-e-correre-a-piagnucolare-dalla-polizia.
E’ pulito, fa lei tornando con la carta, lasciamolo andare.
Sì, non farti più vedere, fa lui spingendomi la pancia col manganello.
Lassotto ci sono i miei amici, adesso imploro.
Là sotto non ci scendiamo, fa lui, per salvare il culo ad un paio di stronzi come te…
Prendo la carta e faccio per andarmene. Faccio qualche passo lasciandomeli alle spalle, cercando di capire cosa posso fare per quel che è rimasto dei miei amici, masticando un senso d’ingiustizia che mi scoppia dentro. Riesco solo a sollevare il dito medio sopra alla testa, fa tutto lui, senza ragionarci su.
AAAAAAAAAAAAAAhhhh, bastardo! E mi piglia in pieno, c’è proprio la mia scapola sulla traiettoria del manganello che tiene ben stretto in mano. Non so come faccio a non cadere, mi strascina per i capelli contro una macchina sul lato della strada. MANI SUL COFANO, urla, ALLARGA LE GAMBE!, mi colpisce i polpacci perché capisca meglio. M’infila le mani dappertutto, sfoggiando tutto il repertorio di parolacce che ha imparato dall’asilo in poi. Ma ci mette poco a trovarlo, lo tenevo proprio nella tasca dei pantaloni, il pezzetto che avevo deciso di portare a casa dopo la canna e la salsiccia che avevamo creduto di goderci lassotto.
Lo sapevo, brutto bastardo, che ce l’avevi il tuo pezzetto di merda.
Puoi infilartelo nel culo, te lo regal..ooff! Manganello sul cranio questa volta, non riesco a non cadere, ad aspettare sull’asfalto un cellulare, una cella e un processo. Aspetto di vedere la poliziotta vestita da infermiera che mi lava il sangue dalla testa con la spugna, ma arriva solo un altro colpo sulla spalla. Sbattuto a terra come un feto. Riesco solo a pensare, non a vedere, non a gridare. Penso a questo che mi sta addosso e picchia sulle gambe, sul fianco, la spalla, il braccio. Picchia per fracassare e ho paura e penso che può spaccarmi, frantumarmi le ginocchia e la testa, ma niente di più. Lui è un braccio e un bastone che picchia. Non può farmi niente di più. Picchia, ma smetterà. Niente di più. Se ne andrà da un momento all’altro, si stancherà, non avrà niente di me, niente di più per lui. Picchia e sento ogni colpo fin dentro ai polmoni. Respiro, quando alza il braccio, e col pensiero lo vedo, il suo braccio, la mano stretta al bastone. Non la faccia, e lui non vede la mia, scarica la sua rabbia, questo sì, dal suo braccio, la mano, il bastone, sulla mia carne. Non avrà niente di più.
Di’ una parola di quel che è successo e tornerò a frugarti così a fondo da trovarti addosso un buon chilo di eroina. Mi hai sentito?
Sentito avevo sentito, ma di rispondere non avevo proprio nessuna voglia. Dovevo solo aspettare.
Non ricordo come son tornato a casa, poi, se sulle mie gambe o trasportato da un angelo. I ragazzi erano già arrivati da un po’, mi hanno poi raccontato, ancora in piedi e preoccupati per la mia sorte, solo un po’ ammaccati. Vedendomi tutto quel sangue secco sulla faccia e i vestiti, volevano portarmi in ospedale, ma blaterai qualcosa su pinochet, i colonnelli e le persecuzioni dei vopos che li convinse a mettermi a letto dopo un doccia calda e qualche cerotto in fronte.
C’ho messo settimane a sgonfiarmi i bernoccoli, sistemarmi le articolazioni, ricominciare ad uscire la sera senza aver voglia di piangere.
Sempre più spesso, da quella sera, mi vengono i dubbi sulla nostra condotta di questi anni, sul nostro anticonformismo borghese, questa nostra energia libertaria e amorale che un giorno bruceremo sulla scrivania del settore vendite di un’azienda orientata all’export, senza aver nient’altro da ricordare che cene selvagge e beati cannoni.
Oggi arricchiamo le cosche albano-pugliesi comprando il fumo, fra diec’anni ungeremo la mafia russa per aprire nuovi mercati all’est. Dove stiamo andando, ragazzi?
Ma loro mi scoccano manate sulla nuca, dicono che ho preso troppi colpi in testa quella sera, mi passano una canna e la chiamano la medicina antistronzata. E non so rifiutare, ma non so nemmeno capire dove sta la ragione. La cosa più difficile è avere certezze a sto mondo, questo l’ho capito. Di certo c’è che il giorno dopo non ce l’ho fatta ad alzarmi. Ho pagato dieci ghinee, per l’esame bucato. E niente tacchino, niente buon vino. Quella volta.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Questo racconto, se lo leggo e lo rileggo, perché il giudizio dovrebbe venire da lentezza e pazienza, mi fa venire in mente innanzittutto me stessa. Un mio antico pensiero sulla profondità di analisi: "Vorrei passare un intero giorno immobile a pensare..." Un mio più recente pensiero: "Scrivere a due teste con il titolare del presente blog. Magari utilizzando Internet, un contesto ironicamente e a tratti anche linguisticamente burocratico, interstizi pluricitazionali, improvvisazioni varie su corde non solo proprie.. Progetto vago e naturalmente naufragato.."
E questo racconto mi fa venire in mente Pasolini e persino Verga. Dov'era già, non ricordo. Ah sì, nel "Il PCI ai giovani", me l'ha trovato il qui criticato autore con Google... Sì è lì che c'era un poliziotto figlio di poveri che faceva a botte con un giovane figlio di papà. Così come il protagonista di questo racconto prova il manganello del poliziotto che incontra riemergendo da quel mondo di sotto del lungo Po', credendo di incontrare le regole, la sicurezza, le buone abitudini. Insomma, quello scontro che si proponeva tra le ceneri di Gramsci non è ancora risolto. Dà ancora spunto e fondamentale forza narrativa, dà sincerità e ancora intensità a questo racconto del terzo millennio. Pasolini...

game

Anonimo ha detto...

...e poi ci devo aggiungere la poesia di quel discorso corale d'uno stato di transizione giovanile sul lungo Po', come un limbo di trasformazione, contenente quella forza poetica di sperare in un possibile mondo migliore e di figurarselo lungo quello sguardo notturno del fiume che trasporta tutte quelle pulsioni e idealità... E da cui si riemerge al duro scontro con la realtà, con la rassegnazione a un mondo adulto che ti farà solo per sempre assaporare e abituare ad un senso d'ingiustizia che ti scoppia dentro..
E soprattutto, la realistica, appunto quasi verghiana, se può centrare qualcosa, resa stilistica di una voce corale. Quasi che i pensieri le sensazioni del protagonista fossero la voce inevitabile di una generazione. Una scrittura che non ti fa tirare il fiato, come un flusso ininterrotto d'un fiume..
Ma come prima dicevo ci andrebbe una intera giornata per pensarci meglio, per dipanare le nebbie. Pasolini suggeriva persino una semiologia del Reale e Gadamer ha lasciato a Gamer una sensazione di polisemia, di interpretazione come ri-creazione.....ecc. ecc. "

ancora game