Quaranta chilometri

(da Patate e champagne, edizioni vida, 2004)
(un grazie all'editrice per il consenso alla pubblicazione)
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E infine siamo andati, partiti col camper a noleggio a ritrovare quel poco di noi che ancora riconosciamo. Diec’anni dopo il grande Interrail che ci portò in lungo e in largo per l’Europa. Perché passare i trent’anni ci ha sballottati, sparpagliati e ridotti. E settimane e mesi di messaggi che correvano per tutta l’Italia, a fissare una meta, scegliere il mezzo, definire una data. E infine partire. In tre, invece dei quattro ch’eravamo. C’è il Michè, iscritto con noi all’università e ancora illaureato. E’ salito sul camper con lo zaino di allora, stessa salopette a rigoni, camicia sahariana, giubba militare. Ci guarda e ci parla, ossuto, nella barba che non ha coltivato. Dice che odia il motore, che è un atto d’amore salire su questa baracca che insudicia il mondo. Lo fa solo per noi, abbandona la bici e i compagni di lotta. Questioni di giorni, gli ho scritto e ora gli dico, il tempo di recuperare gli anni che sono andati. Ci mancherebbe, mi fa, cosa vuoi che ti dica, la Massa Critica è la mia vita. E poi c’è Antò, che si stende sulla branda e dice che son soldi ‘sto viaggio: a Parigi un hot dog può bastare. Lui lo sa, il valore del pane, l’ha capito alla finanziaria dove l’han preso a sgobbare. E conosce il valore del tempo: due giorni, mi ha scritto, quell’unica volta che ha scritto. Perché lui non ce l’ha, il tempo per viaggiare e per leggere le iméil. Lui sta sempre in ufficio. E risponde a chi promette un milione di dollari se apri un conto cifrato nel Belize e per il resto del tempo scandaglia i mercati per grattuggiare un po’ di grana sugli spaghetti. Ogni anno in una casa diversa, Antò, sfilata ad un’asta fallimentare con un finanziamento a favore dei dipendenti che non rispondono alle iméil degli amici. E la finanziaria è contenta di concedergli prestiti e vederlo felice nelle sue case. E lui è orgoglioso quando dice che a 102 anni avrà 9 figli, 30 nipoti e una casa per ognuno di loro. Antò sarà governatore, quel giorno, della bancadeuropa. Pagherà i suoi debiti con freschi biglietti da mille fatti stampare con la sua firma. Poco importa se una donna per procreare nemmeno ce l’ha, perché costa tempo, denaro e dedizione.
E questo sono io, che non mi pento di aver baciato moglie e piccoletta, salito su un aereo giocattolo per raggiungere Antò e Michè ad Aosta, luogo primigenio, e di guidare da più di due ore attraverso montagne e boschi e vallate, con quei due che già dormono in questa notte lunghissima che ci porterà a Parigi. Mi chiamo Francé e non sto nella pelle per l’ebbrezza di avercela fatta. E il Bois, les Impressionistes, un joint le long de la Seine, una nostalgia d’Interrail nei prossimi giorni, e del Kaiser, il padre dei più lunghi candelotti dell’Europa occidentale. I francesi impazzivano (putain!) a guardargli le dita arrotolare sigarettoni superdotati e rigidi come fialotti di birra. I tedeschi cristonavano, in quel dialetto da strascico berlinese (Kaisercigaretten!) e facevano quegli occhi da crucco che riprende a stupirsi dopo anni di apatia. Il Kaiser ci avrebbe guidati a Berlino, si sa, a noleggiare biciclette al Tiergarten e masticare Kebab sull’Alex-platz, a ridere e scombinarci l’anima sulle tele dei Romantici. Abitava in una casa occupata dell’ex Berlino-est, nell’ultimo anno il Grande Kaiser, in quella cagnara di turchi e di punk, di russi scafati e ragazze madri del dopo-muro. La KarlMarxallee si è svuotata, raccontava, gli abitanti a cercare Levi’s e carte di credito all’ovest. Berlino è un’avanguardia, le sue nuove comunità, le sue facce e le identità, ho trovato uno spazio per me, diceva nelle sue rare chiamate, resto qui. E io l’ascoltavo, una mano appesa al cellulare e l’altra sul manubrio della carrozzina: le mie domeniche a Villa Borghese. Appena la puerpera sta meglio, appena la bimba impara a dormire, almeno la notte, non chiedo di più, appena posso vengo su qualche giorno: che ci vuole a ritrovarci, Kaiser, due ore di volo. E invece ha fatto prima lui, è tornato ad Aosta prima della mia prenotazione Lufthansa, prima che potessi capire che cosa fosse successo. Prima di qualunque altra cosa. Sono due autunni che piove sulla sua terra e il suo corpo germoglia e noi non sappiamo perché. Berlino è il futuro di un’idea di continente, Parigi un passato di significati, sono parole del Kaiser. Per questo ci stiamo tornando, non solo per l’appartamento che Antò vuole vedere al Marais. Con quello che costano le case, al Marais.
Tra l’Hôtel de Ville, La Bastille e Place de la République c’è il quartiere più trendy di Francia, ci pensi? L’ho evocato, il nostro Antò, e la testa gli si sporge in cabina di guida, la voce e il cervello a centrifugare: un tempo era il terreno di sfogo per le maree della Senna, continua, ci vivrei volentieri lassù per qualche tempo. La finanziaria mi copre all’ottanta per cento, contro ipoteca di primo grado sull’immobile. Gli chiedo del costo. Che costo, Francé? La contropartita che la finanziaria si fa, voglio dire. Ah quello, dice, e si mette a guardare la luce dei fari: un tasso fuori mercato. Mai nessuna insolvenza dei dipendenti, è un rischio che non viene imputato, nessun costo istruzione pratica e per loro l’opportunità d’incrementare il volume d’affari, senza gravare sul carico fiscale. Ah sì?, faccio io. Sì, per il basso margine di queste operazioni. Certo. Ci vivrei davvero lassù, la finanziaria ha un’associata. E poi considera che sfida: un mercato immobiliare immenso.
L’apparato industriale e finanziario nelle segrete stanze del potere! E’ il saluto di Miché. Anche lui si è svegliato, la barba rivoluzionaria e le ossa che scricchiolano più dell’arredo del camper. Entra in cabina e si siede a parlare: c’è quello che le case le fa e quello che le compra, senti ingegnere, mi fa con la barba che ride, sapevi che la vita è un ponte? Gli dico che apposta sono al volante da due ore. E che vuoi da me?, s’innervosisce, fai il cambio con lo speculatore. Chiedo a Michè perché non ha pensato di portarsi la bici. Boiaduncane, mi fa, se c’avevi pensato perché non me l’hai detto Francé? Gli dico che lo davo per scontato e lo guardo incapricciarsi: mangiaperiferie-d’un-ingegnere! tienimi Antò, che mi dimentico di Ghandi, Luther King e Capitini. Sentite, dico tra le risate, chi mi cambia a ‘sto volante? E Michè s’ammansisce e guarda la strada. La tua fortuna, mi fa, è la mia non violenza, accosta che prendo il volante.
Al posto di guida Michè attacca un monologo già sentito, vestito e spogliato: la città è fatta solo per voi! Un lavoro, una macchina e due gambe veloci. La costruite e ve ne appropriate. Che v’importa se la carrozzella non sa scavalcare, se il nonno c’ha il rosso che è ancora a metà, se il pupo si ciuccia il vostro veleno. La città è lì per voi, scorre dal finestrino, v’ingrassa le tasche, ci mostra come siete didentro. Dovete cambiare, fare una scelta radicale, pensare ai giardini, a piste e scivoli, soprattutto ai bambini. Calibriamo i movimenti sulle gambe più corte, le ruote più fini, il passo più stanco. E’ un fatto di giustizia Antò e di democrazia Francé, per quel che vuol dire.
E Antò mi trova, col suo sorriso, e parte anche lui per farsi sentire: già, democrazia, ma cos’è che vuol dire? Vuol dire rispetto, abbocca Michè, per l’inabile e il vecchio, per Pinocchio e Geppetto, vuol dire che tutti c’hanno le tue possibilità. Vuol dire che non devi aspettarti pietà e chieder favori, se non ce la fai, vuol dire diritti, di andare e di fare, di godere e imparare, come e chiunque tu sia. Diritto di comprarti casa, s’infila Antò, di andartene a Roma a far l’ingegnere, di fare il ribelle finché ti pare, di decidere un bel giorno di soffocarti col gas.
Michè non risponde e anch’io sto zitto, guardiamo i fari sulla strada, le linee tratteggiate che s’infilano sotto il camper, le auto in sorpasso. Parlavo d’altro, fa Michè dopo un momento, dicevo che ho deciso di restarci a Torino: le ragioni della mia lotta, il senso, la mia direzione, non saprei dove altro andarle a cercare. Potrei laurearmi oppure lasciar perdere gli esami, non è questo che conta. Abbiamo un progetto laggiù, di una nuova città, dove la gente si riprende il quartiere e vive la strada e cammina e pedala, e ha il tempo di guardare le cose, i colori e le facce, e parlare e conoscersi e la smetta di correre dentro una scatola di latta e sbarrare la porta di casa a tener fuori tutto l’odio che c’è.
Ma Antò se ne torna sulla branda, sfila una sigaretta dal pacchetto che tiene nel giubbotto e l’accende. Vorrei parlare con Michè, adesso, raccontargli di come sia difficile ottenere incarichi per una città più sostenibile, dei miei compromessi con un potere che privilegia altre esigenze, di quello che avrei voluto fare appena fuori dall’università. Ma Michè mi dice che ha bisogno di un caffè, perché con tutto quel gran parlare, mi fa, finisce che m’addormento su questo volante. Così imbocca l’uscita per la stazione di servizio dove ci prendiamo quel genere di caffè da macchinetta automatica, che forse è meglio di quello da bar qui in Francia, se non fosse per le monetine che dobbiamo tastarci dal capo in giù. E guardo Antò, che afferra il suo bicchiere di plastica come fosse un whisky virile e ingaggia un torneo di sguardi e rimandi con queste due tipe un po’ avanti d’età che si fanno un sandwich al tavolino più in là. Schiena diritta, petto in fuori, guarda, beve e riguarda, il nostro Antò, che all’università non falliva un esame perché studiava, ci diceva, con una tacchina diversa ad ogni sessione. Amavamo innaffiare le vigilie d’esame di poker e Chianti, all’epoca: il Kaiser che girava sigarettoni da competizione, Michè che perdeva tutte le mani e Antò che alle undici lasciava il tavolo e se ne partiva col pigiama nello zaino a consolare la tacchina di turno angosciata per l’esame. E Michè, immancabilmente, s’infuriava, perché sentiva che la fortuna stava girando: non puoi lasciare il tavolo proprio adesso, urlava ad Antò, adesso che le carte si stanno scaldando. Ma Antò se ne andava lo stesso, lasciandoci in tre, troppo penoso il poker in tre per poter continuare e ce ne andavamo a dormire. La mattina dopo, la tacchina per mano, Antò entrava in aula raggiante. Ricordo come sbalordiva il docente con valanghe di argomenti, teoremi, formule, ragionamenti. Era un trenta, quasi sempre, mentre noi tentavamo di rabberciare uno straccio di discorso sensato e credibile. Michè, con la testa ancora piena di fumo e di Chianti, le volte che riuscivamo a scollarlo dal letto, rosicchiava un grandissimo diciotto, se proprio gli capitava una giornata fortunata. Io, col Kaiser, stavo nel giusto mezzo, per nostra fortuna. Ma Antò, davanti a noi, non ha mai ammesso le sue eccezionali capacità per l’ingegneria. Così come adesso non saprebbe dirci di andare, che lui ha ben altro da fare, sebbene lo voglia, e si vede, dimenticare per una notte case, tassi e ipoteche. Sto per dirgli che noi ce ne andiamo a dormire e domani ripartiamo, che lo lasciamo in buone mani, quelle che stringono baguette come una cosa che non posso dire e la portano alla bocca in quel modo che non devo guardare, io che ho moglie e piccoletta lontano ad aspettare. Andiamo via di qua ragazzi, mi anticipa e ci strattona Michè, che mi prudono le mani, torniamo alla baracca, che ho voglia di sgommare.
E siamo di nuovo in sella, alla volta di Paris, tre o quattrocento chilometri dalla meta, in questa notte di pensieri e ricordi, detti o taciuti, gli Smiths a far da colonna sonora. E Michè che non sa più di odiare il motore, che spinge sul pedale con fare sportivo. Canta Michè, is it really so strange?, sulla voce di Morrisey: and you can kick me, and you can break my face, but you won’t change the way I feel. E mi vien da chiedermi che cosa ci tenesse insieme in quegli anni di università, non solo un affitto da dividere e libri da far circolare. Il successo stava ad Antò come la sfiga a Michè. Tutte quelle donne alla corte di Antò erano schiaffi, non tanto per me e il Kaiser che di certe situazioni sapevamo approffittare, quanto per Michè, costretto a fare i conti con esami impossibili, l’inettitudine al poker, una bruttezza che non puoi dire che non conti. E il Kaiser ed io sempre nel mezzo, le giornate in biblioteca e i suoi virili cannoni che usavamo per sedurre nel parco le tacchine che ci chiedevano di Antò. E i nostri discorsi importanti, la volontà del Kaiser di lavorare per una nuova città, per riedificare i luoghi del vivere, diceva. E la mia voglia di seguirlo, in questi progetti, dirgli ci sto, facciamolo Kaiser. Cose che alla fine non ho detto, per questa mia incapacità di voler pesare sull’altrui destino, di dire ascoltami ti porto con me, lasciati condurre e fidati. C’è voluta mia moglie, che mi chiedesse di sposarla e mi portasse a Roma a inseguire il suo lavoro. E a convincermi, con la sua forza persuasiva, ad organizzare questa due giorni, perché ne hai bisogno, mi ha detto, lei lo ha capito. Ha capito che da tre anni sono fuori dal buon giro degli incarichi, degli studi importanti che fanno lobby, da un entourage di amicizie che laggiù fatico a costruire, costretto a rimorchio delle sue. Così che alla fine a me e al Kaiser è toccata la parte dei deboli. Nessuno l’avrebbe creduto, a vederci assieme.
Basta così.
Ricominceremo noi tre, dal Bois de Boulogne, con un joint girato male che ci corre fra le dita. L’assoluto pretesto per parlare del Kaiser, dei suoi motivi, buoni o cattivi, di aver fatto quello che dicono abbia fatto. Domandarci perché e rivederlo sui treni d’Europa, con i francesi che dicevano putain, e i berlinesi e le loro ragioni per tornare a stupirsi, Kaisercigaretten! E le ragazze d’Olanda e Danimarca, a inseguire Antò per mezza Francia e molta Spagna. Io e il Kaiser a raccoglierne i frutti e Michè a studiare le tratte, Michè. E ancora esami nei nostri discorsi fumati, docenti bastardi e la puzza d’aceto nelle mense dove Michè macchiava i manuali di olio di sansa. Valà mi son rotto, fa proprio Michè d’un botto, a rompere, per fortuna, gli inutili pensieri. Adesso mi fermo, che tocca allo speculatore portare la baracca.
Così Antò si mette alla guida e Michè si deposita sulla traccia di corpo lasciata sulla branda. Freccia, frizione, volante, acceleratore: riparte Antò, i fari puntati al buio del nord. La strada par che non voglia finire questa notte, come il silenzio abbattuto dalla vibrazione che le ruote trasmettono alla carrozzeria e alla rotazione dei miei pensieri.
Ascolta Antò, gli dico per rompere lo stallo, nessuno s’è mai spiegato com’è che il migliore tra noi sia rimasto in quel buco di città a remare per una tale impresa di cui non voglio parlare (stavolta l’ho detto, qualcuno doveva farlo, comunque). Ma Antò guarda la strada, quel che si vede della strada, deserta e nera com’è. E anch’io mi metto a fissare quel poco che c’è, col rischio che i pensieri mi tornino su.
Primo, fa Antò quando non ci speravo più, Aosta mi dà quello che mi serve, a Parigi ci andrei solo per un periodo di prova. Secondo, non vedo perché dovrei rinunciare ai pranzi di mia madre, alla sua lavatrice e al suo ferro da stiro. Questa è bella, gli faccio e rido. Terzo, lui continua e non ride, mi pagano bene, che credi, in quell’impresa e poi, te l’ho spiegata la faccenda delle case. Certo, gli faccio, la faccenda delle case… domani vediamo quell’appartamento al Marais. Sì, fa lui, gran piazza Parigi, anche se metterei volentieri un occhio su un immobile di Roma. Ma tu, raccontami Francé, come te la passi laggiù?
Sì, come me la passo?
Così, gli occhi sulla strada, su quel poco da vedere che c’è, dico ad Antò degli incarichi su cui sto lavorando, la fatica di ricavarmi uno spazio, la necessità di accettare proposte che un tempo avrei disprezzato. E della forza che moglie e piccoletta sanno darmi in questo, la consapevolezza che, con loro, tutto il resto può andare come va. E gli dico chiamali come vuoi Antò, questi miei ragionamenti, neanch’io saprei se definirli felicità o rassegnazione. Ma lui dice che da tempo ha smesso di voler dare un nome a tutte le cose, almeno da quando, mi fa, al Kaiser è successo quel che è successo.
Chiameremo le cose nel modo che abbiamo scelto per loro, vorrei dire ad Antò e a Miché che dorme là dietro, mangeremo i ricordi insieme alla strada a far da contorno. Parigi è un passato di significati e le parole mi corrono via, veloci sull’asfalto.
Guarda! Antò punta un dito nel buio, lo vedi? Io guardo e lo vedo, il cartello: Paris 40 KM. Diec’anni dopo il grande Interrail. E il Bois, les Impressionistes, un joint le long de la Seine, e una nostalgia del Kaiser nei prossimi giorni. E i francesi urlavano putain, e i tedeschi (Kaisercigaretten!) gridavano di non essersi mai sconvolti tanto. Allora credevamo in un viaggio diverso per noi.
Un altro incubo post-moderno, fa Michè dal fondo della sua branda.
Andremo in metrò, gli ribatte Antò, un pezzo del tuo sogno comunitario.
Paris: ancora quaranta chilometri. Per fortuna.
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Tutti gli autori del libro. (Foto di Gaetano Lo Presti)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Veloce da lasciarti quasi senza fiato. Personaggi che dopo poche pagine, ti sembra di conoscere da una vita.

Anonimo ha detto...

grazie. quello sui personaggi è l'apprezzamento migliore che potessi aspettarmi!

cessione del quinto ha detto...

Ho scoperto il blog solo ora e volevo farvi i complimenti per l’opportunità offerta ai nuovi scrittori. Sara M.